
In prossimità di ogni tornata elettorale il tema sanità riacquisisce una dignità quantitativa nella discussione politica che ormai non ci sorprende più, purtroppo questa maggior presenza nel confronto o scontro tra politici, manca di qualità, nel senso che sembra il frutto della lettura di una manuale delle istruzioni di qualche negozio di bricolage, o il riassunto di un una rassegna stampa degli ultimi mesi.
Questa discussione non trasuda mai il vissuto di chi quotidianamente lavora nella sanità o di coloro che ci si rivolgono per bisogni o necessità personali o dei propri cari. Il risultato è una comunicazione fredda e tecnicistica che sembra occuparsi di altro rispetto la salute ed il benessere di ciascuno di noi.
Come medico da trent’anni in questa regione, ma anche come paziente e familiare di pazienti, non riesco a riconoscermi in questa narrazione e in questo modo di progettare il presente ed il futuro.
Non si parla di malati, né dei loro familiari o dei caregiver. Il personale sanitario viene menzionato come prestatore d’opera, magari celebrandolo per “aver prodotto di più a risorse invariate”, come scritto nel consuntivo ufficiale della Regione per l’anno 2024 per la sanità veneta.
In questo panorama dalle prospettive grigie, approfitto delle recenti dichiarazioni di Alberto Stefani, segretario della Liga Veneta, per esprimere un pensiero sul tema delicato del disegno di legge Calderoli sui Lep (Livelli essenziali della prestazioni) ed il mio timore che questi possano andare a sostituire gli attuali Lea (Livelli essenziali di assistenza).
Potrebbe sembrare un banale tecnicismo, in realtà le parole hanno un valore importante legato soprattutto all’argomento di cui si parla o si scrive: l’assistenza è un concetto che include relazione, cura, continuità, empatia; la prestazione è un atto isolato, tecnico, da contare e misurare. È la trasformazione della sanità in una catena di montaggio.
Cambiare i LEA in LEP significherebbe accettare che la sanità diventi solo un elenco di prestazioni da erogare, non più un patto sociale fondato sul diritto alla salute. È un cambio di paradigma che svuota la medicina del suo significato umano e sociale. Il rischio è che lo Stato garantisca solo prestazioni minime e che il resto venga lasciato alle regioni, creando 20 sanità diverse, con 20 modi diversi di definire chi ha diritto a cosa. È la fine dell’universalismo solidale.
Noi, come cittadini, professionisti, pazienti e familiari, dobbiamo reagire. Dobbiamo pretendere una sanità che metta al centro le persone, non i numeri. Una sanità che curi anche quando non può guarire, che ascolti anche quando non può risolvere, che accompagni anche quando non può più fare altro.
La vera riforma che serve oggi è culturale e politica: ridare dignità alle professioni sanitarie, valorizzarne il ruolo, renderle nuovamente attrattive. Occorre investire in motivazione, formazione, spazi adeguati, tutela e rispetto. Solo così si può difendere il patrimonio inestimabile che rappresenta la sanità e ribadirne il ruolo fondamentale per costruire il nostro futuro.
Massimiliano Zaramella, chirurgo vascolare al San Bortolo di Vicenza, presidente del Consiglio Comunale di Vicenza e delegato alla Salute dello stesso Consiglio comunale