ViPiu.it intervista giornalista iraniana Hana Namdari, vive e lavora a Verona per l’Indipendent Persian: “a Teheran rischio arresto e impiccagione”

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La giornalista iraniana Hana Namdari
La giornalista iraniana Hana Namdari

Hana Namdari: “Finché la base del potere rimane religiosa e assoluta, nessun cambiamento sarà reale. Le libertà si possono simulare, ma non vivere. E gli iraniani lo sanno fin troppo bene, chi prova a ribellarsi viene eliminato in silenzio.”

Hana Namdari è una giornalista nata a Teheran con origini curde, è in Italia dal 2010 e da quattro anni lavora a Verona, dove vive dal 2018 e dove si è sposata, per l’Indipendent Persian, media indipendente con cui denuncia quella che definisce la “sistematica azione di repressione” della Repubblica Islamica. Hana Namdari, volto noto anche sulle tv nazionali (a TgCom 24 ha recentemente dichiarato “Io sono scappata dal mio Paese e non posso più tornare a casa: se solo mi avvicino all’aeroporto di Teheran vengo arrestata e impiccata, immediatamente. Per quale colpa? Per essere un’attivista che dice la verità e che denuncia la dittatura e i soprusi che da 47 anni continuano nel Paese? La guerra è uno choc ma forse così cambierà qualcosa, in tanti oggi lo sperano anche se non tutti hanno il coraggio di parlare,”), è da sempre in prima linea sul fronte dei diritti umani, strenua oppositrice del regime teocratico iraniano e ha concesso un’intervista a ViPiu.it per rilanciare la sua testimonianza, in un momento particolarmente difficile per il suo paese colpito dagli attacchi di Israele e Stati Uniti.

Giornalista iraniana Hana Namdari
Giornalista iraniana Hana Namdari

Il regime iraniano condiziona la diffusione delle notizie? E se sì in che modo?

Assolutamente sì. In Iran, l’informazione con l’attuale regime non è mai stata libera. Esiste un sistema di censura capillare, gestito direttamente dallo Stato, che controlla tutto ciò che viene pubblicato o trasmesso. Ogni giornale, ogni programma televisivo, ogni sito internet attivo nel Paese deve ottenere l’autorizzazione preventiva delle autorità e firmare un impegno formale di fedeltà alla Costituzione della Repubblica Islamica.

Qualsiasi contenuto che anche solo vagamente metta in discussione i valori del regime, il ruolo del Leader Supremo o le leggi religiose viene bloccato, censurato o punito. Le redazioni vivono sotto costante minaccia: basta un titolo considerato “sospetto” per far chiudere una testata o far arrestare un giornalista.

Io stessa ne ho fatto esperienza indirettamente: mio padre è stato arrestato più volte per articoli che avevano osato toccare verità scomode. Non serviva molto: bastava una parola fuori posto, una foto fuori contesto, una frase interpretata male.

Ma non si tratta solo di censura. Il regime pratica anche una strategia attiva di disinformazione sistematica: manipola immagini, riutilizza fotografie del passato, diffonde versioni distorte degli eventi. In questi giorni, ad esempio, hanno fatto circolare immagini vecchie spacciandole per attuali, nel tentativo di controllare la percezione pubblica e internazionale.

Anche i media internazionali non sono liberi di operare in Iran. Devono firmare gli stessi impegni di lealtà al regime, sono sottoposti a controlli severi, seguiti dai servizi e non possono partecipare liberamente a manifestazioni o eventi pubblici. Chi tenta di raccontare il vero rischia grosso. Il caso della giornalista italiana Cecilia Sala, arrestata appena arrivata nel Paese, ne è un esempio chiaro: per il regime, la verità è pericolosa, soprattutto se raccontata da occhi stranieri.

In Iran, la verità non è solo nascosta: viene attivamente sostituita. Questo è il dramma più profondo per chi, come noi, ha scelto di raccontare ciò che succede davvero.

Quindi lei si sentiva condizionata?

Ovvio che mi sentivo condizionata, ogni giorno, in ogni parola. E non solo come cittadina, ma soprattutto come professionista: lavorando in televisione, la censura la sentivo addosso in modo ancora più pesante. Ogni frase che pronunciavamo in onda doveva essere autorizzata, ogni intervista passava al vaglio, ogni argomento veniva filtrato secondo i criteri imposti dal regime.

Non esisteva libertà editoriale, né libertà di opinione. Dovevamo ripetere frasi imposte, evitare nomi proibiti, seguire linee guida ideologiche rigide. Anche l’abbigliamento era una forma di censura visiva: io stessa potevo apparire solo se completamente coperta, con il velo ben sistemato, senza un filo di trucco in più, senza poter esprimere nulla del mio stile, della mia identità.

In quelle condizioni, è difficile sentirsi liberi. E ancora più difficile è creare qualcosa di autentico, quando sai che ogni parola può costarti il lavoro, la libertà o anche peggio.

Come maturò la scelta di lasciare il suo paese?

Avevo solo sei anni quando fui costretta a indossare un’uniforme nera che mi copriva dalla testa ai piedi. Iniziai così la scuola elementare sotto la Repubblica Islamica. Ogni mattina cominciava con la lettura obbligatoria del Corano e proseguiva con slogan gridati in coro: “Morte all’America”, “Morte al regime sionista”. Un’educazione ideologica imposta fin dall’infanzia, senza spazio per il pensiero critico o per la libertà.

Nonostante tutto, riuscii a entrare all’Università di Teheran e poi a lavorare in televisione. Per motivi professionali, mi trasferii a Sanandaj, la mia città d’origine, dove conducevo un programma rivolto ai giovani. Ma fu proprio allora che capii, fino in fondo, quanto fosse impossibile per me continuare a vivere e lavorare in Iran.

L’atmosfera era soffocante. Ogni parola doveva essere approvata dalla censura. Non potevo andare in onda senza essere completamente coperta; ogni intervista, ogni battuta, ogni testo era controllato. La libertà di espressione non esisteva. Non potevi dire, scrivere o perfino pensare liberamente.

Per una donna, per una giornalista e per giunta una curda, non c’era futuro. Era chiaro: dovevo cercare un’altra strada, un’altra casa, un’altra vita.

È stata una consapevolezza che ho maturato giorno dopo giorno. Paradossalmente, cercavamo di ricreare piccoli spazi di libertà nelle nostre case: feste private, balli, conversazioni intime, letture proibite, un bicchiere di vino, la possibilità di stare senza velo, di sentirci semplicemente umani. Era il nostro modo per sopravvivere, per respirare.

Ma la paura era sempre presente. Alcuni cittadini, molto religiosi e fedeli al regime, facevano da spie. Bastava una telefonata alla polizia “In quella casa c’è una festa, uomini e donne insieme” e la tua vita poteva cambiare in un attimo.

È importante ricordare che prima del 1979, durante il periodo dello Shah, in Iran si viveva in un modo completamente diverso: non c’erano obblighi religiosi nell’abbigliamento, uomini e donne potevano frequentarsi liberamente, si andava a concerti, in discoteca, al mare. Una quotidianità simile a quella di molti Paesi europei. Gli anni ’60 e ’70, per chi li ha vissuti, restano ancora oggi un simbolo di libertà.

Io non ce la facevo più. Non riuscivo ad accettare che, dopo una serata passata tra affetti, risate e musica, la mattina dovessi rientrare in un mondo buio, cupo, dominato dalla paura e dalla repressione. Quel contrasto è diventato insostenibile. Non volevo più sopravvivere: volevo vivere.

Com’era la situazione in Iran sul fronte dei diritti umani e delle libertà delle donne?

La condizione delle donne in Iran, sotto la Repubblica Islamica, è una delle più discriminatorie al mondo. I diritti fondamentali sono gravemente limitati da leggi religiose e patriarcali che trattano le donne come cittadine di seconda classe.

A livello legale, la testimonianza di una donna vale la metà di quella di un uomo in tribunale. In caso di divorzio, la custodia dei figli viene assegnata automaticamente al padre o alla famiglia paterna. Se una donna commette adulterio, rischia ancora oggi la pena di morte per impiccagione — e fino a pochi anni fa, la lapidazione era praticata ufficialmente.

Una donna non può sposarsi né viaggiare all’estero senza il permesso del padre (se nubile) o del marito (se sposata). E sempre il marito ha il potere legale di impedirle di lavorare o di lasciare il paese.

Sul piano della vita quotidiana, le donne devono rispettare un rigido codice di abbigliamento: il velo è obbligatorio in ogni luogo pubblico, e il corpo deve essere completamente coperto. Anche andare al mare o in piscina è una questione di controllo e separazione: le spiagge sono divise per genere, e in molti casi alle donne è vietato fare il bagno in pubblico, se non coperte.

Cantare in pubblico è proibito per una donna. Così come fumare in pubblico è considerato “immorale”. Le restrizioni colpiscono anche la libertà di movimento, di espressione, di arte, di scelta personale.

In breve, le donne iraniane vivono sotto un sistema che legalizza la discriminazione e nega ogni autonomia, anche sui più semplici aspetti della vita. Chi osa sfidare queste regole, rischia carcere, frustate, o peggio.

Un altro aspetto poco noto riguarda le restrizioni matrimoniali imposte alle donne iraniane.

Secondo la legge della Repubblica Islamica, una donna musulmana non può sposare legalmente un uomo non musulmano. Se lo fa, il matrimonio non viene riconosciuto dallo Stato. Questo vale anche fuori dall’Iran, nei consolati e nelle ambasciate.

Molte donne iraniane residenti all’estero, anche in Paesi liberi e laici come l’Italia, si trovano in situazioni assurde e discriminatorie. Per ottenere il nulla osta al matrimonio da parte delle autorità iraniane, è spesso richiesto che il futuro marito – se non musulmano – si converta formalmente all’Islam. Senza questa conversione, la donna non può sposarsi civilmente, né registrare legalmente il matrimonio in Iran.

È una pratica che viola il principio di libertà religiosa, oltre a ledere i diritti fondamentali della persona. Ed è sorprendente – e anche doloroso – vedere che Paesi democratici come l’Italia tollerino che, sul loro territorio, uno Stato straniero imponga condizioni così medievali e sessiste alle proprie cittadine.

Queste sono le contraddizioni che molte donne iraniane affrontano ogni giorno, anche dopo essere fuggite dal proprio Paese. La libertà, per noi, non è mai stata un diritto acquisito: è una conquista continua.

Oggi secondo lei non è cambiato nulla?

Purtroppo, no. Non è cambiato nulla di sostanziale. La Repubblica Islamica si fonda su una costituzione religiosa, ispirata direttamente alla sharia e al Corano, considerato parola divina e dunque intoccabile. Questo significa che chi protesta contro le leggi o contro il sistema, viene immediatamente accusato di essere contro Dio stesso e per questo può essere arrestato, torturato, persino giustiziato.

Non bisogna farsi ingannare da alcune immagini diffuse sui social o dai media di regime, che mostrano giovani donne sorridenti, senza velo, come se l’Iran fosse improvvisamente diventato un paese libero.

È una propaganda studiata, pensata per manipolare l’opinione pubblica internazionale e soprattutto per ingannare l’Occidente, mostrando una “normalità” che non esiste.

La verità è che la repressione è ancora durissima, e anzi, negli ultimi anni si è fatta ancora più feroce. Le telecamere controllano le strade, le università, i mezzi pubblici. Le donne vengono identificate con l’intelligenza artificiale e punite, anche solo per un velo messo “male”. Le prigioni sono piene di attivisti, studenti, artisti, giornalisti, semplici cittadini che hanno osato esprimersi.

Finché la base del potere rimane religiosa e assoluta, nessun cambiamento sarà reale. Le libertà si possono simulare, ma non vivere. E gli iraniani lo sanno fin troppo bene.

I suoi familiari vivono ancora in Iran?

Per fortuna, tre dei miei fratelli sono riusciti a lasciare l’Iran negli anni scorsi. Ognuno di noi ha seguito una strada diversa, ma con un unico obiettivo: cercare libertà e dignità fuori da quella gabbia.

Mia madre, invece, vive ancora lì, da sola. È una delle tante donne forti che sono rimaste, spesso per necessità più che per scelta. In questo momento, per fortuna, si trova qui con noi, in Italia, per ricevere le cure mediche di cui ha bisogno. Ma il pensiero che debba un giorno tornare in un Paese dove la sanità è sotto il controllo del regime e dove i diritti più basilari mancano mi fa molta paura.

E poi ci sono gli amici, le persone care, quei legami profondi che restano anche a distanza. Ogni telefonata, ogni silenzio improvviso, porta con sé l’ansia di sapere se stanno bene, se non sono stati arrestati, se non sono finiti nel mirino del regime.

Quello che ci hanno tolto, oltre alla libertà, è anche la possibilità di vivere insieme ai nostri affetti, nella nostra terra.

È ben noto l’attacco israeliano e di recente quello statunitense al suo paese, come vengono vissuti dal popolo iraniano ?

Per molte persone in Iran, questi attacchi non sono vissuti come una minaccia, ma come un segnale di speranza.

Dopo 47 anni di dittatura religiosa, dopo decenni di repressione, povertà, torture, esecuzioni pubbliche e censura, la gente è stanca. Stanca di essere sola, di gridare libertà senza che il mondo ascolti.

Negli ultimi tre anni, soprattutto con il movimento Donna, Vita, Libertà, milioni di iraniani sono scesi in piazza, hanno rischiato tutto – molti hanno perso la vita – ma nessuna vera potenza internazionale è intervenuta a sostegno. Siamo stati dimenticati.

E mentre il regime continuava a minacciare Israele e l’Occidente, nelle scuole, negli uffici pubblici, perfino agli ingressi degli edifici statali, venivamo costretti a calpestare le bandiere di Israele e degli Stati Uniti. Era obbligatorio. Dovevi farlo per entrare. Dovevi gridare “Morte all’America”, “Morte a Israele”, anche se non ci credevi. Altrimenti rischiavi l’espulsione, o peggio.

A Teheran, c’è ancora un grande tabellone elettronico, ora danneggiato da un’incursione israeliana, che ogni giorno “conta” quanto manca, secondo loro, alla fine del cosiddetto regime sionista “fissata” al 2040. È tutta una propaganda continua, ossessiva, costruita per odiare. Per distrarre dalla realtà: una società impoverita, devastata ecologicamente, piena di giovani che fuggono, di donne oppresse, di carceri piene di innocenti.

In questo contesto, alcuni vedono l’intervento esterno come un’operazione chirurgica necessaria.

Perché il popolo, da solo, non ce la fa più. La repressione è troppo forte. Chi prova a ribellarsi viene eliminato in silenzio.

Non è questione di sostenere una guerra o un’occupazione, ma di capire che senza un aiuto concreto, il popolo iraniano rischia di rimanere per sempre schiacciato sotto un regime disumano.

Anche perché, una volta eliminato questo regime, potrebbe davvero tornare la pace in Medio Oriente.

La Repubblica Islamica dell’Iran, fin dalla sua nascita nel 1979, ha esportato instabilità e conflitto.

Non è un’opinione: è un fatto documentato. Ha finanziato milizie estremiste in Palestina, Libano, Siria, Iraq, Yemen, e ha alimentato l’odio verso Israele e l’Occidente per decenni. È la radice di gran parte delle tensioni nell’area.

Finché questo regime resterà in piedi, nessun popolo nella regione potrà davvero respirare in pace, né il popolo iraniano, né quelli vicini.

Solo con la fine della teocrazia di Teheran si potrà aprire uno spazio nuovo per la stabilità, il dialogo e la riconciliazione.

Il popolo iraniano non vuole più guerra, non vuole più essere usato come arma ideologica. Vuole vivere, costruire, rialzarsi. E per farlo, ha bisogno che il mondo riconosca una verità semplice: il cuore del problema, purtroppo, è a Teheran.

Ha notizie di vittime fra i civili nelle incursioni che hanno avuto come principali obiettivi i siti per la produzione di energia nucleare?

Finora, alla notte del 24 giugno, si registrano circa 819 morti in Iran a seguito degli attacchi, di cui circa 180 sono civili. Gli attacchi hanno colpito sia siti per la produzione di energia nucleare sia altre infrastrutture

Che lei sappia l’Iran stava preparando l’atomica?

Non solo io, ma anche l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ha confermato che l’Iran ha accumulato uranio arricchito in quantità tale da poter potenzialmente costruire una bomba atomica. Sebbene il governo iraniano abbia sempre dichiarato che il suo programma nucleare è a scopi civili, molte autorità internazionali temono che ci siano intenti militari dietro a questo accumulo.

I capi del regime sono in fuga o nascosti da qualche parte?

I vertici del regime iraniano non sono in fuga apertamente, ma molti vivono sotto stretta protezione e in condizioni di massima sicurezza, consapevoli delle crescenti minacce interne ed esterne. Alcuni membri importanti cercano di mantenere un basso profilo per evitare di essere bersaglio di attacchi o arresti.

Tuttavia, alcune fonti sostengono che alcuni esponenti di spicco potrebbero già essersi rifugiati in paesi come Russia o Venezuela, anche se queste informazioni non sono state confermate ufficialmente.

È ipotizzabile un ribaltone degli Ayatollah?

Certamente, è ipotizzabile e lo speriamo con tutto il cuore. Un ribaltone degli Ayatollah rappresenterebbe non solo una liberazione per il popolo iraniano, oppresso da decenni di dittatura religiosa, ma sarebbe anche un grande regalo per tutto il mondo, poiché potrebbe portare a una maggiore stabilità e pace in Medio Oriente.

Inoltre, per il regime è stato duro subire gli attacchi da parte di Israele, che hanno messo in evidenza le fragilità e aperto crepe tra i suoi vertici, alimentando tensioni interne che potrebbero favorire un cambiamento.

Ora cosa faranno Cina e Russia?

La Russia aveva affermato che avrebbero fornito testate nucleari all’Iran, ma questa notizia non è mai stata ufficialmente confermata. Successivamente hanno smentito, sottolineando che, a differenza di Israele, la Russia è membro del Trattato di Non Proliferazione Nucleare.

Attualmente, la Russia condanna ufficialmente contro Israele e gli USA ma cerca di evitare un’escalation del conflitto, non volendo entrare in ulteriori tensioni.

La Cina, invece, ha chiesto a tutte le parti coinvolte di evitare escalation e di impedire che la guerra si allarghi ad altre regioni.

La Cina ha sottolineato in modo particolare che lo Stretto di Hormuz, attraverso cui transito molto del greggio e del gas anche verso quel paese, e il Golfo Persico devono essere protetti dalle conseguenze del conflitto, evitando che vengano coinvolti nelle tensioni e nelle ripercussioni della guerra.

La repubblica islamica sperava in un sostegno più deciso da parte di Cina e Russia, ma finora così non è stato.

In questo momento in cui Trump parla di tregua e pace, bisogna aspettare e vedere come si evolveranno gli eventi. Spesso queste dichiarazioni aprono spazi di speranza, ma la situazione resta molto complessa e delicata. Sarà fondamentale osservare le mosse dei vari attori coinvolti per capire se davvero ci sarà un cambiamento concreto.