
La lucidissima analisi di Gigi Copiello sul Corriere del Veneto di venerdì 18 u.s. coglie senza ambiguità il nodo di una questione tanto semplice quanto intricata: cosa succede ai bambini e ai ragazzi quando chiudono le scuole? Copiello denuncia l’assenza della scuola nei mesi estivi, lasciando le famiglie sole nel gestire figli dai 3 ai 14 anni. I centri estivi sono spesso costosi, disorganici e insufficienti. Serve il coinvolgimento della scuola, non per fare lezione, ma per dare orientamento educativo e supporto strutturale. Insomma serve una politica di scuole aperte.
È un tema che, come ogni estate, riemerge con forza, ma che continua a restare irrisolto. E non perché manchi la consapevolezza ma perché affrontarlo sul serio significa mettere in campo un cambio di paradigma sul ruolo della scuola nel territorio.

Responsabile Politiche educative Azione Veneto
Parlare di scuole aperte d’estate non significa proporre un prolungamento dell’anno scolastico, né stravolgere la funzione educativa del tempo estivo. Significa, piuttosto, prendere atto che i tre mesi di chiusura rappresentano un vuoto educativo, sociale e organizzativo che molte famiglie faticano a gestire. Ed è un tema che, come giustamente si osserva, diventa ancora più urgente oggi, in un contesto dove le reti familiari sono più fragili, il lavoro non si ferma e i servizi faticano a stare al passo. Ma non è una questione che si possa scaricare interamente sulla scuola. È un tema interistituzionale, che coinvolge scuola, enti locali, associazionismo, terzo settore. Richiede spazi adeguati (pensiamo alle scuole che chiudono anche per mancanza di impianti di raffrescamento in estate), risorse economiche e professionali, e soprattutto una programmazione pedagogica condivisa, che dia continuità e senso anche alle attività cosiddette non formali, cioè a quelle esperienze significative che avvengono al di fuori del contesto istituzionale (culturali, sportive, di vita associativa…)
È vero: oggi la maggior parte dei centri estivi nasce come iniziativa spontanea, tutte lodevoli, di enti locali e, in primis a Vicenza, di cooperative, di strutture private. Ma serve un salto di qualità. Serve, per cominciare, sperimentare modelli. In alcune città, come Bologna, l’assessora regionale Isabella Conti sta avviando progetti pilota: alcune settimane di apertura scolastica in continuità con l’anno, ma con ritmi e modalità diverse. È una strada da osservare con attenzione.
E serve una governance di sistema (molto semplicemente, chi fa cosa). Una cabina di regia che metta insieme attori pubblici e privati, scuola e territorio, per costruire un’offerta coerente, sostenibile e accessibile. Non è un compito da affidare al caso o all’improvvisazione di ogni singolo istituto.
Non è solo un’urgenza pratica, è anche una questione politica, culturale e pedagogica. Ed è anche un buon tema da inserire nella prossima campagna elettorale regionale: perché parlare di natalità e famiglia è facile, ma garantire contesti educativi solidi, continuativi e condivisi è una sfida concreta che può (e deve) diventare parte delle politiche pubbliche.

Da parte mia, ho cercato di offrire qualche spunto nel libro Per una scuola del territorio, di Carli, Lanaro, Coquinati – ed. Ronzani): un testo che prova a immaginare una scuola meno chiusa su sé stessa, più intrecciata con la comunità, più capace di “abitare” anche il tempo estivo, non come estensione forzata dell’anno scolastico, ma come opportunità educativa e sociale.
Non possiamo permetterci che il tema delle scuole aperte d’estate diventi, ancora una volta, il “best seller” dell’estate politica, per poi svanire a settembre tra i buoni propositi dimenticati.
Perché educare non è un’emergenza stagionale, ma una responsabilità collettiva. Anche — e soprattutto — quando suona l’ultima campanella (quella di fine lezioni dell’anno scolastico).
Francesca Carli
Responsabile Politiche educative Azione Veneto