
Costretto a subire violenza fisica e umiliazioni degradanti da un gruppo di coetanei più grandi. È quanto accaduto l’11 luglio a Verona (qui i dettagli) a un ragazzo di appena 13 anni, obbligato dai suoi aggressori a inginocchiarsi e baciare loro i piedi. La denuncia del grave episodio di bullismo, presentata dalla madre soltanto il 21 agosto ai Carabinieri, racconta di un silenzio lungo più di un mese: un silenzio imposto dalla paura di ritorsioni, dal terrore quotidiano che ha accompagnato la giovane vittima.
A esprimere “profondo turbamento” è il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani (CNDDU), che definisce il caso “non una ragazzata, ma un segnale grave che interroga la società nel suo complesso”.
Una violenza che lega il branco
Secondo il CNDDU, l’episodio rivela il volto inquietante di una cultura che tende a legittimare la sopraffazione come forma di riconoscimento nel gruppo. «Quando il branco diventa il luogo in cui si misura il proprio valore – sottolinea il presidente Romano Pesavento – la violenza si trasforma in linguaggio identitario. La vittima non è solo un bersaglio occasionale, ma diventa funzionale alla coesione interna del gruppo stesso».
La ferita psicologica
L’aspetto più grave di questo episodio di bullismo, osserva il Coordinamento, è che il ragazzo fosse già in condizioni di fragilità clinica. Subire un’aggressione simile significa incidere profondamente sulla percezione di sé e sul rapporto con il mondo. La paura di parlare, il silenzio iniziale, il terrore delle giornate successive «sono indicatori di una sofferenza che richiede ascolto, protezione e sostegno qualificato».
La responsabilità della scuola e della comunità
Per il CNDDU, il caso Verona è un monito a tutto il sistema educativo: «Non possiamo ridurre l’educazione ai diritti umani a un accessorio curricolare o a un progetto sporadico. Essa rappresenta una necessità imprescindibile per contrastare l’analfabetismo emotivo e la crescente normalizzazione della violenza».
La scuola – è la riflessione – deve diventare un luogo quotidiano di empatia, rispetto reciproco e gestione non violenta dei conflitti. Allo stesso modo, famiglie e comunità devono interrogarsi sulle proprie omissioni, perché «la dignità violata di un ragazzo è una ferita collettiva».
Il CNDDU manifesta, quindi, piena solidarietà al tredicenne e alla sua famiglia, ma avverte: non basta l’indignazione. «Occorre trasformare scuole, famiglie e comunità in luoghi di prevenzione e crescita umana. Solo così episodi di questo tipo smetteranno di essere tollerati come inevitabili e saranno finalmente riconosciuti per ciò che sono: un tradimento dei valori fondativi della nostra società democratica».