
(Articolo sul genocidio in Palestina da VicenzaPiù Viva n. 302, sul web per gli abbonati).
Dal 7 ottobre 2023 sono passati ormai 2 anni, durante i quali Israele ha continuamente perpetrato crimini contro l’umanità, violando innumerevoli volte il diritto internazionale. Il governo sionista di Netanyahu ha assassinato giornalisti, bombardato ospedali, attentato alla vita degli operatori umanitari e ucciso civili, tra cui donne e bambini, con le bombe, i cecchini e in ultimo l’inedia. Da oltre 200 giorni a Gaza non arrivano sufficienti aiuti umanitari fondamentali come la farina, le medicine o il carburante. E l’Unione europea, davanti a questa tragedia umanitaria che si sta consumando in diretta sui nostri cellulari non fa niente.
L’Unione europea ama presentarsi come l’attore globale per eccellenza interessato a difendere i diritti umani, la pace e il multilateralismo. Nei documenti ufficiali, Bruxelles parla spesso di “potenza normativa” e di “impegno per il diritto internazionale”. Ma di fronte al genocidio del popolo palestinese in corso a Gaza, l’azione dell’Ue è rimasta incastrata tra dichiarazioni contraddittorie, aiuti umanitari insufficienti e una paralisi politica che è, di fatto, complicità.

Parole parole parole, soltanto parole
Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, la reazione delle istituzioni europee è stata immediata e univoca: condanna del terrorismo e riaffermazione del diritto di Israele a difendersi. Tanto il Consiglio quanto la Commissione hanno adottato toni duri verso Hamas, ma molto più cauti rispetto alle violazioni commesse fin dall’inizio dall’esercito israeliano. Nei mesi successivi, tra ottobre 2023 e il 2025, il Consiglio europeo ha approvato conclusioni che chiedevano pause umanitarie e corridoi per gli aiuti, senza mai mettere in discussione Israele come partner strategico. Tra le più alte cariche dell’Unione, solo l’ex alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell ha chiesto esplicitamente e con forza un cessate il fuoco immediato, mentre la catastrofe umanitaria era già sotto gli occhi di tutti. Il Parlamento europeo si è mostrato più netto. Diversi eurodeputati hanno promosso risoluzioni che condannavano le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele, chiedendo sanzioni mirate contro i coloni estremisti e il congelamento di accordi bilaterali. Ma il Parlamento, com’è noto, non ha poteri vincolanti in politica estera e così le prese di posizione di alcuni dei suoi membri sono rimaste lettera morta. L’Italia, allineata alle posizioni europee, ha ribadito la condanna del terrorismo di Hamas e sostenuto il diritto israeliano alla difesa, con qualche cautela sulle vittime civili. Roma ha promosso iniziative simboliche come il programma “Food for Gaza”, ma si è guardata bene dall’assumere posizioni più radicali, ad esempio sul riconoscimento immediato dello Stato palestinese, a differenza delle vicine Spagna e Francia.
Le poche azioni concrete: gli inutili aiuti miliardari
Sul piano pratico, l’Ue è rimasta fedele al suo ruolo tradizionale di donatore al popolo palestinese. Dal 7 ottobre 2023 al 2025, Bruxelles ha mobilitato circa 550 milioni di euro per Gaza in aiuti umanitari, canalizzati attraverso l’UNRWA, il Programma Alimentare Mondiale e ONG locali. A questo si è aggiunto un ponte aereo con decine di voli umanitari e un corridoio marittimo da Cipro, che hanno permesso di inviare migliaia di tonnellate di cibo e medicinali. Eppure, anche questi sforzi (che va ribadito, rimangono insufficienti senza una condanna netta all’operato israeliano) hanno avuto un impatto minimo. Gran parte degli aiuti è rimasta bloccata ai valichi per decisione israeliana, mentre a Gaza la carestia si diffondeva. Le immagini di bambini morti di fame e famiglie costrette a bere acqua contaminata hanno mostrato quanto le risorse europee fossero incapaci di scalfire la realtà del blocco. A conti fatti, l’Ue ha distribuito fondi senza esercitare alcuna pressione politica efficace per garantire che gli aiuti raggiungessero davvero la popolazione. Sul fronte diplomatico, la Commissione ha parlato di revisione dell’accordo di associazione con Israele, che prevede clausole vincolanti sul rispetto dei diritti umani. In teoria, tali clausole darebbero all’Ue la possibilità di sospendere gli scambi commerciali privilegiati. In pratica, però, nessuna misura sostanziale è stata adottata: né l’embargo di armi, né la sospensione degli accordi, né alcuna sanzione generale contro lo Stato di Israele. Solo alcuni Stati membri, come ad esempio la Spagna, hanno provveduto in maniera individuale a bloccare l’export di armi. L’Unione nel suo insieme, e l’Italia in particolare, preferiscono non rompere con Tel Aviv, mantenendo inalterati i propri rapporti con uno stato genocida e un governo composto da criminali internazionali.

Forse è il caso di parlare di complicità nel genocidio
Se le istituzioni europee hanno mantenuto un equilibrio prudente, ONG e osservatori indipendenti non hanno usato mezzi termini. Medici Senza Frontiere ha accusato apertamente i leader europei di essere “complici del genocidio in corso”, denunciando che le loro parole non hanno impedito la fame e i bombardamenti. Oxfam, Save the Children e Amnesty International hanno chiesto invano di sospendere gli accordi commerciali con Israele e imporre sanzioni mirate. È evidente la posizione dell’Europa che, così pronta a difendere i diritti umani in Ucraina, ha scelto di chiudere gli occhi davanti ai crimini contro l’umanità di Israele. Anche il mondo accademico ha sollevato il problema, con giuristi e associazioni di diritto internazionale che hanno ricordato che la Corte Internazionale di Giustizia ha riconosciuto un “rischio plausibile di genocidio” a Gaza: in base a questo, gli Stati terzi hanno l’obbligo legale di agire per impedirlo. L’Unione Europea, invece, si è limitata a “prendere nota” delle sentenze senza trarne conseguenze operative. Nell’agosto 2025, 209 ex-ambasciatori e alti funzionari europei scrivono che di fronte al genocidio, il silenzio e la neutralità costituiscono complicità, chiedendo a Bruxelles di sospendere gli accordi e di usare la leva economica contro Israele. Una voce isolata, che però testimonia quanto anche all’interno delle élite diplomatiche cresca l’insofferenza verso l’immobilismo europeo.
Il doppio standard europeo
Il nodo politico è evidente: l’Ue ha adottato un approccio completamente diverso rispetto a quello seguito per l’Ucraina. Quando Mosca ha invaso Kiev, Bruxelles ha reagito con sanzioni dure, embargo energetico, forniture militari e un impegno finanziario senza precedenti. Nel caso di Gaza, dove il diritto internazionale è violato in modo sistematico, la risposta è stata ridotta a qualche dichiarazione e a pacchi di cibo. Il doppio standard non è passato inosservato. In molte parti del Sud globale l’Europa viene accusata di ipocrisia: difende la “rule of law” solo quando è in gioco la sicurezza dei propri confini, rimanendo stretta in una contraddizione insanabile. Gli inutili proclami su quanto sia bella la democrazia e su quanto siano importanti i diritti umani e la soluzione a due Stati, sono esattamente solo questo: parole.
Ma c’è una nota positiva
Davanti all’immobilismo, alla complicità e all’inefficacia delle istituzioni che ci rappresentano, esiste una fetta della nostra società che non accetta di guardare impotente il massacro di civili innocenti. Ed è da questa coscienza collettiva che nascono due dei migliori esempi di mobilitazione dal basso degli ultimi anni. Il primo arriva proprio dall’Italia, ed è lo sciopero generale che il 22 settembre ha bloccato moltissimi comparti lavorativi, tra cui tangenziali, autostrade e stazioni dei treni, facendo emergere una coscienza collettiva che richiede con forza al nostro governo delle azioni precise. Moltissimi sono stati gli attacchi subiti da questa mobilitazione dal governo, che ha cercato di dipingere lo sciopero come un manipolo di violenti e devastatori. La realtà rimane però diversa: le manifestazioni che hanno attraversato le piazze di più di 76 città italiane sono state per lo più non violente e hanno visto la partecipazione di tutte le fasce d’età, dagli anziani ai bambini. I pochi momenti di scontro, brutalmente strumentalizzati dal governo e da alcuni giornali, non sono stati caratterizzanti della giornata, ma semmai la riprova che il tema è sentito, urgente e richiede una risposta forte e immediata.
E poi lei, la Global Sumud Flotilla (GSF), l’ultima, clamorosa iniziativa della società civile internazionale per sfidare il blocco israeliano su Gaza. Partita a fine agosto 2025, la flottiglia non è solo un convoglio umanitario, ma un gesto politico: una forma di disobbedienza globale che punta a mostrare l’impotenza delle istituzioni e la complicità silenziosa dei governi occidentali. La GSF è composta da circa 50 imbarcazioni provenienti da diversi Paesi – tra cui Spagna, Italia, Grecia e Tunisia – con a bordo circa 600 persone tra attivisti, giornalisti e politici (tra cui alcuni parlamentari europei). Trasporta un carico di centinaia di tonnellate di aiuti: alimenti, medicinali e beni di prima necessità destinati a una popolazione stremata da mesi di assedio. La missione ha incontrato un sostegno insolitamente esplicito da parte di alcuni Stati membri, tra cui l’Italia, che ha inviato proprie navi di supporto, formalmente con funzioni di protezione umanitaria e non militare, dopo gli attacchi con i droni subiti dalla flottiglia a fine settembre. Ma, al di là dei comunicati, resta la domanda cruciale: perché a sfidare il blocco devono essere attivisti civili su piccole barche e non l’Unione europea con tutto il suo peso politico e diplomatico? La flottiglia dimostra che laddove i governi si fermano, la società civile si muove. È un atto di sumud – “resistenza” in arabo – che mette a nudo l’inerzia di Bruxelles: incapace di aprire veri corridoi umanitari, l’Ue si limita ad applaudire da lontano chi rischia la vita per portare sacchi di farina a Gaza.



































