Daniele Bernardini, un vicentino (Pomo) d’oro, che fa scuola (del Lunedì)

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Bernardini in fattoria
Daniele Bernardini in fattoria

(Articolo su Daniele Bernardini da VicenzaPiù Viva n. 303, sul web per gli abbonati).

Uomo del dire poco e fare tanto, forte sostenitore del servizio pubblico ed esperto di bioetica, l’ex primario di gastroenterologia del San Bortolo, smesso il camice bianco ha preferito il volontariato alla libera professione. E non se ne pente. Discreto e riservato, lo abbiamo stanato per indagare cuore grande e giornate piene di chi crede fermamente in tutto quello che fa e si guarda bene dal vantarsene.

Almeno un danno, suo malgrado, la Fornero ha evitato di farlo… Prima di stravolgere il mondo pensionistico con la sua riforma, ha dato il tempo al dottor Daniele Bernardini di ritirarsi dal lavoro cui fino ad allora si era dedicato anima e corpo e permettergli quindi di dedicarsi, sempre anima e corpo, a chi ha bisogno, anche una volta deposto il camice. Non che come medico, con la sua preparazione e la sua fedeltà al servizio pubblico, non fosse un professionista stimato dal ruolo determinante, anzi. Ma quello che fa ora è non solo utile, ma colorato, profumato, discreto, vivo… in una parola, bellissimo.
Siamo andati a trovarlo in quella che da anni ormai è la sua seconda casa. Niente lunghi corridoi che sanno di disinfettante, ambulatori angusti e facce intimorite, ma campi a perdita d’occhio, serre e le pareti in mattoni cariche d’atmosfera di un antico casale del Seicento. E, sparsi qua e là, i sorrisi dei “suoi” ragazzi, i giovani con disabilità intellettiva o fisica lieve e media che sono l’anima della Fattoria Il PomoDoro di Bolzano Vicentino, di cui raccontiamo in un altro articolo e di cui Bernardini è presidente (e tra i fondatori).

Bernardini tra gli anziani dell'IPAB nel 2013
Bernardini tra gli anziani dell’IPAB nel 2013

Dottore, lei che fa tanto per Vicenza, quanto è vicentino?

Totalmente. Sono nato, 74 anni fa, cresciuto e vissuto sempre a Vicenza e anche la mia carriera medica si è svolta interamente nella mia città. Mi sono occupato di igiene e medicina preventiva e specializzato in gastroenterologia, di cui sono stato primario al San Bortolo dal 1994 al 2010. E tengo a specificare che ho sempre creduto, e ancora credo, nel servizio pubblico e ho scelto di non praticare mai la libera professione, né durante gli anni di lavoro né dopo la pensione.

Lei ha tutto fuorché l’aria del pensionato. Non l’ho conosciuta ai tempi del camice bianco, ma mi pare perfettamente a suo agio qui, all’aria aperta, immerso (e sommerso) in quella che è pur sempre un’attività (dolcemente) terapeutica…

Sono andato in pensione a 60 anni, un soffio prima della riforma Fornero e, escludendo appunto l’opzione assai comune tra i colleghi di continuare a esercitare privatamente, ho trovato subito, in modo naturale, il modo di dedicarmi ad altro (ndr: gli altri). L’allora sindaco Variati mi propose di entrare nel consiglio di amministrazione dell’Ipab (Istituto pubblico di assistenza e beneficenza) e ne assunsi poi la vicepresidenza, quando presidente era Giovanni Rolando.
In seguito, sotto la presidenza Turra di Ipab, assunsi la presidenza della Rsa di Parco Città. Ma non sono tanto le cariche a importare, almeno per me, ma è il fine ultimo, il servizio pubblico appunto. Poi da cosa nasce cosa.

 Scuola del Lunedì intitolata a Don Carlo Gastaldello, sempre senza posti liberi
Scuola del Lunedì intitolata a Don Carlo Gastaldello, sempre senza posti liberi

Ecco appunto, come è nata l’associazione onlus il PomoDoro?

Venne da noi, nel 2012, un gruppo di genitori di ragazzi con disabilità a chiedere che venisse messo a loro disposizione un luogo a loro misura, dove riunirsi, aiutare a crescere e proteggere i loro figli.
Con Giovanni Rolando, l’avvocato Gianni Cristofari, Vanna Santi (allora preside dell’Istituto Montagna) e l’avvocato Giovanni Gozzi, rompendo gli schemi, decidemmo di concedere in comodato d’uso l’edificio, con annesso fondo agricolo, di proprietà dell’Ipab ma in disuso, dove mi sta intervistando.

Come è passato lei dalle scartoffie alla fattoria?

Semplice: venni a sbirciare come andavano le cose, mi fermai come volontario e da allora non me ne sono andato più. Entrai nel direttivo dell’associazione per dare una mano. Ma siccome queste realtà sono meravigliose ma non immuni dal tritacarne della burocrazia, delle cartacce e soprattutto del budget, a seguito di alcuni cambiamenti all’interno dell’associazione, nel 2020, Il PomoDoro da onlus passò ad Aps (associazione di promozione sociale) e dovemmo aprire anche una impresa sociale, per questioni di ordine puramente fiscale. Oggi presidenti dell’Aps e della srl siamo rispettivamente Rosanna Rossi e io. E nuovi cambiamenti sono in arrivo, ma non voglio spoilerare nulla.

La fattoria
La fattoria

Chi lavora al PomoDoro?

Oggi abbiamo 13 dipendenti e poi i nostri ragazzi, una ventina circa, a turnazione.
Sono giovani fuori dall’obbligo scolastico, quindi dai 16 anni in su, più che disabili, diversamente abili. Si tratta di quella bolla, insomma, di persone troppo abili per un centro diurno, ma non abbastanza per essere “accettati” dal mondo del lavoro. La loro capacità di relazione è enorme, proporzionale alla soddisfazione che ci dà vederli sereni e appagati dai singoli ruoli che affidiamo loro o in cui li affianchiamo. Dalla coltivazione alla raccolta, dalla mondazione degli ortaggi alla vendita in bottega, fino al servizio di sala nel nostro ristorante.

Non è solo una questione di lavoro, di muovere e sporcare le mani, vero?

Assolutamente no, è molto di più. È inclusione, autostima, realizzazione, stimolo, crescita, responsabilizzazione e anche disciplina. Qui i ragazzi trovano non solo un contesto lavorativo, ma imparano a sviluppare il rapporto con l’altro (ndr: loro che sono sempre con considerati “gli altri”) e le regole della vita in comune. E questo non con lavagne, rimproveri o imposizioni, ma “semplicemente” con le attività di agricoltura sociale, respirando aria buona e soprattutto libera. Dico sempre che da noi le porte sono sempre aperte, ma non scappa mai nessuno.

E se nessuno scappa mai, come fate ad accogliere tutti? Avete un numero chiuso?

No, perché in realtà i ragazzi si alternano, sia a livello di turni, sia di esperienze. Vanno e vengono. La disabilità in realtà non esiste, ma è la risultante del rapporto tra chi ha una menomazione e il mondo in cui è costretto a vivere. Ciononostante, per una presa di coscienza della nostra inadeguatezza, non accogliamo chi ha dipendenze, patologie psichiatriche o un autismo grave. Il nostro non vuole essere un rifiuto, ma cerchiamo di orientarli verso realtà competenti e in grado di essere loro davvero utili.

Sembra una favola ma, non diciamolo troppo forte, le favole a volte si avverano…

Siamo orgogliosi del nostro progetto, e dei nostri ragazzi, ma le difficoltà sono davvero tante. Portarlo avanti è molto impegnativo. Detto questo, io sono sereno e tranquillo e ogni giorno torno qui con entusiasmo.

Una scuola di vita. Ma c’è un’altra scuola per cui, in barba alla sua riservatezza, dobbiamo dirle grazie.

Il merito non è mio, è un progetto che viene da lontano, ma sono felice di farne parte. Si chiama la Scuola del Lunedì ed è l’eredità (o il recupero) del diritto allo studio che nel 1974 prevedeva un monte di 150 ore l’anno di lezione per gli operai che non avevano avuto modo di conseguire la terza media. Anche dopo, a metà degli anni 80, quando ormai il diploma delle medie era più diffuso, il progetto è proseguito sotto forma di corsi monografici di approfondimento. Sul finire del decennio, la mannaia: niente più fondi da parte del Ministero. Ma don Carlo Gastaldello, cappellano ai Ferrovieri, non si arrende e nel 1989 dà vita all’avventura della Scuola del Lunedì, appunto, rivolta a lavoratori e pensionati. Da 36 anni l’esperimento, patrocinato dal Comune, continua, grazie a insegnanti e professionisti volontari.
Gestita da un gruppo spontaneo di cittadini, ogni settimana, dalle 15 alle 17, propone incontri a tema presso la Biblioteca La Locomotiva, sempre ai Ferrovieri, aperti a tutti (adulti e senior).
Dopo la morte nel 2020 di mio fratello Giuseppe, che ne era coordinatore responsabile, ho sentito di assumere il suo ruolo, che svolgo coadiuvato da un bel gruppo di persone. Oggi i corsi, che sono a ingresso libero e gratuito, vengono sempre più tenuti da relatori di calibro, su vari temi culturali, sociali, di attualità ed etici. Neanche a dirlo, questi ultimi sono i miei preferiti. Sempre durante la presidenza Turra di Ipab, ho fondato il Comitato Etico interno alle case di riposo (ndr: poi “scaduto”, o fatto scadere, nel dopo-Covid) che operava in collegamento con il Comitato Etico per la Pratica Clinica della Ulss, di cui sono stato membro dal 2005 al 2015. Ho anche scritto molto di bioetica e protocolli comportamentali.

Allora le chiedo, in questo luogo pieno di vita e di prospettive, che cosa pensa del fine vita?

È un argomento molto delicato e ahinoi sempre più attuale. Devo confessare che prima ero molto più critico, ma la coscienza deve contemplare anche una rivalutazione. Infatti da tempo collaboro con l’Associazione Luca Coscioni, nel senso che partecipo a diversi convegni e incontri sul tema nel territorio vicentino e porto la mia esperienza per sensibilizzare su una questione che non può più essere ignorata.