«È un momento toccante, commovente, per me di grande rimpianto. Un punto nella storia. Dopo 47 anni e un mese la Gran Bretagna lascia l’Unione europea». Peter Hennessy, cattolico, una lunga carriera come giornalista per “Times”, “Financial Times” ed “Economist”, prima di diventare il più importante storico britannico contemporaneo (è docente di Storia contemporanea alla Queen Mary University di Londra), è rattristato. «Sono sempre stato a favore dell’Unione europea e penso che questo nostro piede in Europa fosse uno dei pilastri più importanti della nostra prosperità e della nostra influenza sulla scena globale», spiega al Sir. «Sono anche preoccupato per la Scozia, perché penso che ci sia una buona probabilità che i nostri cugini scozzesi se ne vogliano andare, con conseguenze devastanti per l’Unione di Inghilterra e Scozia avviata nel 1707”. Alle 24 ora italiana di venerdì 31 gennaio, le 23 ora inglese, Lord Hennessy ha ascoltato la stessa musica di Bach che il premier Ted Heath suonò sul clavicordo, a Downing street, il 28 ottobre del 1971, per i suoi parenti, quando la Gran Bretagna decise di entrare nell’allora Comunità economica europea. «Bach ci ha fatto entrare», dice, «e Bach ci fa uscire, ma è un momento di grande tristezza. Così mi sono sentito quando gli europarlamentari di Bruxelles hanno intonato il ‘canto dell’addio’, sperando quasi che la separazione dai loro colleghi britannici fosse soltanto arrivederci».
Professore, i britannici sono europeisti oppure no?
«È impossibile rispondere a questa domanda. Quando il generale De Gaulle rifiutò la nostra prima richiesta di entrare in Europa, nel 1963, disse che i britannici avevano un modo tutto loro di fare politica, unico rispetto agli altri Paesi europei. Penso che sia vero. Credo che ci siamo sempre sentiti diversi, pur essendo profondamente parte dell’Europa. Il fatto che siamo stati una potenza marittima, ai margini del continente, guardando al resto del mondo, ha alimentato questi sentimenti».
Che cosa è cambiato rispetto agli inizi anni Sessanta, quando il premier MacMillan voleva che il Regno Unito entrasse in Europa e il generale De Gaulle si opponeva?
«Penso che allora vi fosse una forte componente ideale, perché l’Europa veniva vista come un modo per evitare un’altra guerra. Per la Gran Bretagna era importante garantire che non vi fosse un altro conflitto. C’era, però, anche un calcolo politico. Si pensava all’Europa come a un modo per sostenere la nostra influenza nel mondo. La vera domanda adesso è se, nella nostra storia, questi quarantasette anni e un mese di presenza in Europa verranno visti come un’opportunità persa oppure come uno sforzo inutile».
Di che cosa è composto l’antieuropeismo britannico di questi anni?
«Di molti aspetti. La questione europea è stata, per anni, noiosa e poi, all’improvviso, quando ha coinvolto il problema dell’immigrazione, ha cominciato a preoccupare i cittadini britannici. Quando la Gran Bretagna entrò in Europa, nel 1973, cominciarono gli anni difficili del rialzo dei prezzi del petrolio e il nostro Paese non condivise il benessere dei primi anni della Comunità economica europea. Inoltre, col passare del tempo, l’Europa divenne sempre di più un’unione politica e non soltanto una questione di accordi commerciali e questo non è mai piaciuto a chi vuole proteggere la nostra indipendenza politica, la cosiddetta sovranità. Infine i politici britannici si sono abituati a usare la Ue come capro espiatorio, dando all’Europa la colpa di quello che non andava nel Paese. I primi ministri britannici, per anni, sono andati a Bruxelles, hanno ottenuto quello che volevano e poi sono tornati qui e hanno cominciato a parlare male della Ue».
Il premier Boris Johnson farà il bene o il male di questo Paese?
«Difficile rispondere. Può darsi che Johnson si darà da fare per costruire una società giusta, ma certo non è guidato da principi morali, ma soltanto dal desiderio di rimanere primo ministro. Ha conquistato voti che sono stati laburisti per moltissimi anni, ma in quelle circoscrizioni elettorali chi lo ha votato chiede posti di lavoro e non vedo come il governo possa garantirli».
Esiste il rischio che Brexit provochi la secessione della Scozia?
«È la mia paura più grande. Penso che possa davvero succedere e che, se capitasse, avrebbe un impatto psicologico molto forte sul Regno Unito perché, dal 1700, le nostre storie, la nostra politica e la nostra identità sono intrecciate. Anche se a nord del vallo di Adriano esistono un sistema legale e scolastico diversi dal nostro, la Scozia ha sempre arricchito il Regno Unito scientificamente e culturalmente. La perdita sarebbe enorme. Purtroppo gli scozzesi non amano essere governati dai conservatori e Boris Johnson rappresenta proprio il politico che gli abitanti a nord del vallo di Adriano non eleggerebbero mai».