Banca clandestina cinese in Italia, dall’inchiesta Repubblica le ramificazioni in Veneto

1687
Banca clandestina cinese frodi fiscali

Ha ramificazioni anche in Veneto la cosiddetta “banca clandestina cinese” operante in Italia e svelata da La Repubblica in una sua corposa inchiesta giornalistica. Il lavoro svolto dal noto quotidiano di Gedi Gruppo editoriale e pubblicato a inizio mese è davvero minuzioso e imponente e merita una attenta lettura (si può consultare qui) per comprendere ogni sfaccettatura della vicenda.

Qui di seguito, sfruttando la fonte, cercheremo di dare conto ai nostri lettori del legame con il Veneto di questa misteriosa entità che opera in ambiti ancora poco chiari (indaga l’Antimafia, ndr) e – a quanto pare – intesse rapporti anche con la criminalità organizzata.

Prima di addentrarci è meglio tratteggiare di cosa si tratta, come spiegato dai colleghi di Repubblica: “In Italia c’è una banca segreta con filiali a Roma, Firenze, Padova, Prato, Napoli e Reggio Calabria. Un istituto di credito che muove miliardi di euro verso la Cina offrendo servizi speciali per clienti speciali. ‘China underground bank’ la chiamano gli investigatori italiani, a partire da quelli della Guardia di Finanza: i primi a capire che qualcosa di strano si sta muovendo nel nostro Paese”.

In sostanza, la banca clandestina cinese riciclerebbe somme miliardarie senza lasciare traccia: dalle rimesse dei cittadini cinesi verso la madrepatria fino ad offrire un “servizio” di riciclaggio di grosse somme provenienti da “narcotrafficanti legati alla Camorra e alla ‘ndrangheta” oppure “imprenditori in gran parte del Nord-Est”, “oligarchi russi” fino agli “imprenditori edili protagonisti di truffe milionarie sul superbonus“.

Le rimesse alla Cina e il Nord Est

Nell’inchiesta si inizia a parlare di Veneto e in senso più ampio di Nord Est d’Italia nel momento in cui si richiama un fenomeno: da qualche anno le rimesse dei cinesi verso la madrepatria sono in drastica diminuzione. Qualcosa – spiegano gli autori – di non logico. Da un lato, infatti, l’ordine di Pechino rimane, come in passato, che i soldi guadagnati in Italia da imprese e store debba tornare in Cina e non investito in Italia. Almeno in gran parte. Dall’altro lato, non ci sarebbero evidenze di un calo della presenza industriale e commerciale cinese in Italia, a giudicare dal numero delle Partite Iva aperte. Anzi.

Repubblica cita una relazione per il Veneto firmata dal generale Bruno Buratti, ex comandante dell’area Triveneto della Guardia di Finanza, esperto di movimentazione di denaro in Cina. Secondo il rapporto, “tra il 2008 e il 2020 solo nel Nord-Est sono state aperte da cinesi 15 mila partite Iva e il 55 per cento ha dichiarato zero euro, il 20 per cento tra 6 mila e 0 euro di fatturato”. Inoltre, “gli interventi ispettivi nei confronti di ditte individuali cinesi hanno consentito agli inquirenti di scoprire un debito tributario pari a 2 miliardi di euro a fronte di un recupero di appena 50 milioni di euro”. Insomma, l’ipotesi sarebbe che di queste movimentazioni possa essersi occupata proprio la Banca clandestina cinese in Italia, intermediaria con gli istituti bancari cinesi.

Banca clandestina cinese: l’evasione scoperta dai carabinieri di Verona

L’inchiesta ricorda un passaggio fondamentale, frutto degli approfondimenti degli investigatori. Dopo aver scoperto (2014) un “intermediario” cinese a Milano, che nel suo appartamento custodiva ingenti quantità di contante frutto di operazioni sospette tra imprenditori evasori con aziende oltre confine e un funzionario compiacente di un istituto del Ticino, nel 2017 avviene qualcosa di simile in Veneto.

I carabinieri di Verona – si legge nell’inchiesta giornalistica – scoprono la truffa di alcuni imprenditori di Legnano che avevano evaso Iva e altre imposte con finte fatture a società cartiere e grazie a questo meccanismo si erano aggiudicati appalti pubblici in diversi settori, dall’edilizia ai servizi. Si scopre che gli imprenditori italiani attraverso società fasulle hanno versato in conti correnti di banche estere 37 milioni di euro in cambio di contante prelevato da uno sportello postale con tranche da 5 mila euro a volta fatti da ‘corrieri’ pagati 50 euro a prelievo. Nelle pieghe di questa indagine salta fuori una donna cinese che ha gestito ‘un grande flusso di denaro verso la Cina’ con questo meccanismo. Ma che strano, soldi che vanno in Cina. E gli italiani? Come si riprendono il denaro? Questo passaggio non è chiaro“.

Vengono citate altre operazioni delle forze dell’ordine tutte accomunate dalla presenza di soggetti italiani che evadono e di cinesi che offrono servizi per trasferire denaro all’estero. Manca capire, quindi, come poi i soldi tornino indietro agli evasori.

Il centro commerciale di Padova gestito da cinesi

Per capire la chiusura del cerchio bisogna tornare, ancora una volta, in Veneto e precisamente in un centro commerciale di Padova gestito da cinesi. Il riferimento è soprattutto a “La Via della Seta” (2021), indagine della Guardia di finanza di Pordenone su un giro sospetto che comprende smaltimento di scarti ferrosi, pagamenti alle banche cinesi e recupero di contanti in sacchi.

Novembre 2021, operazione Via della seta. La Guardia di finanza di Pordenone dopo anni di indagini, pedinamenti, intercettazioni, scopre il meccanismo di evasione su Iva di imprenditori italiani nel settore del ferro e dello smaltimento degli scarti ferrosi e pagamenti alle banche cinesi per 150 milioni di euro, con tanto di restituzione di contanti in sacchi in un centro commerciale di Padova gestito da cinesi.

Nelle stesse settimane la Guardia di finanza di Portogruaro fa una seconda indagine, su un noto commercialista Veneto che garantiva l’evasione di diversi imprenditori e i conseguenti investimenti frutto del nero, e arriva sempre lì, nel centro commerciale di Padova. Una donna, Wang Y. è la regista di tutto e garantisce, con i suoi familiari che gestiscono un anonimo negozietto in via Stati Uniti, contanti in sacchi per centinaia di milioni di euro. Alla fine mettendo insieme le due operazioni, si arriva a due trasferimenti di fondi in Cina per 210 milioni di euro”.

La Guardia di finanza arriva al centro commerciale seguendo un imprenditore di Pordenone sospettato di smaltire i rifiuti ferrosi di fabbriche del Nord evadendo Iva per milioni di euro. L’uomo si reca spesso nello store cinese di Padova a ritirare “buste” di denaro contante.

Lo schema – secondo gli investigatori – è il seguente: le aziende di Lombardia, del Veneto e dell’Emilia Romagna vogliono smaltire gli scarti senza pagare imposte e aggirando i controlli sull’origine dei materiali. Quindi vendono in nero grandi quantità di metalli a società create allo scopo da imprenditori che poi fingono di acquistare a loro volta quantitativi identici da società estere da loro stessi controllate. Ne risultano carte false per certificare la provenienza estera del materiale.

Quindi, alle società estere arrivavano i bonifici di denaro reale per milioni di euro con il quale acquistano materiale ferroso in Cina facendo pagamenti a banche cinesi, alcune delle quali controllate dallo Stato stesso. Poi i cinesi restituiscono i soldi in contanti agli italiani, tenendo per sé una percentuale per il disturbo.

In seguito la Guardia di Finanza riesce anche a trovare delle prove nell’hard disk di un investitore di Portogruaro contenente, ad esempio, foto dei bonifici in Cina. “Seguendo queste tracce – ancora Repubblica -, gli inquirenti finiscono sempre in corso Stati Uniti a Padova. E davanti si trovano il volto di chi gestirebbe questa intermediazione per conto dei cinesi. Lo stesso volto che appare nell’operazione della Finanza di Pordenone: una donna, chiamata nelle intercettazioni la grande sorella“.

Lo schema completo della cosiddetta Banca clandestina cinese viene condiviso con altri comandi della finanza e altre forze dell’ordine e, tra l’altro, servirà a interpretare un caso che ha destato molto scalpore: a Brescia nel giardino di una coppia di imprenditori vengono trovati fusti con 8 milioni di euro in contanti. Altri 3 milioni sono stati trovati nella cantina. Il giro di fatture false però valeva 500 milioni di euro e riguarda anche in questo caso “finti acquisti di materiale ferroso in Slovenia e paesi dell’Est con bonifici arrivati fino in Cina per 4,5 milioni di euro”.

Questo dunque, specificamente sul Veneto, il quadro della vasta inchiesta giornalistica sapientemente condotta da La Repubblica, la quale si conclude con un interrogativo che ha tutti crismi della domanda retorica e che è assolutamente non secondario nell’intera vicenda della banca clandestina cinese: “Può lo Stato cinese non sapere che nei conti correnti delle sue banche arrivano miliardi di euro frutto di attività illecite di ogni tipo e anche del nero fatto dai distretti in Italia?