
(Articolo di Renzo Mazzaro sulla sanità veneta da VicenzaPiù Viva n. 301, sul web per gli abbonati).
Dietro i 15 anni di slogan pronto soccorso più cari d’Italia, cittadini costretti a indebitarsi per curarsi e un sistema pubblico svuotato a vantaggio dei privati. Bilancio sulla sanità veneta.
I quindici anni di governo del Veneto di Luca Zaia se ne stanno andando senza un bilancio serio. Intendiamo un bilancio tecnico sulle cose fatte, misurate sulla distanza dalle promesse. Sui cieli del Veneto campeggia solo il 75% del consenso con cui il presidente è stato eletto nel 2020. Una percentuale scritta a caratteri cubitali, mai raggiunta da nessuno e sfoderata ultimamente in tutti i discorsi dall’interessato, preoccupato di vendere
cara la pelle con la promessa-minaccia di una sua lista da barattare con un posto nell’empireo della politica. Altro non si vede.
A colmare la lacuna arriva una analisi sulla sanità del Veneto negli ultimi 15 anni da parte di due tecnici. Uno è Franco Toniolo, già direttore generale della sanità ai tempi di Giancarlo Galan presidente e Flavio Tosi assessore alla sanità, l’altro è Ubaldo Scardellato, anche lui ex dirigente in diverse Usl. L’analisi è contenuta in un libro che si tiene alla larga da valutazioni politiche. Misura le cose usando il duro linguaggio degli atti ufficiali e delle normative con cui la Regione ha impartito le linee di governo della sanità veneta con il piano socio sanitario 2012-16 e con il successivo 2019-23.
Per cominciare i due fanno giustizia della nomea con la quale di volta in volta il Veneto viene collocato in cima alla graduatoria delle regioni italiane per la capacità di governo della sanità. La situazione è molto ondivaga, ma la verità è che il Veneto dal 2019 perde posizioni. Il monitoraggio dei Lea (livelli essenziali di assistenza) vedeva nel 2020 in testa la Provincia di Bolzano, seguita dalla Provincia di Trento e al terzo posto la Regione Emilia Romagna. Nel 2021 la graduatoria era Emilia Romagna, Toscana e Provincia di Trento. Nel 2022 il Veneto era al quinto posto. Nel 2023 tornava secondo, dietro l’Emilia Romagna.
Stando ad una ricerca Unipol-Ambrosetti il Veneto è secondo in Italia per l’offerta sanitaria, quarto per la salute della popolazione e per la spesa over 65, nono per gli asili nido, diciottesimo per le politiche del lavoro.
Insomma, un saliscendi. Ma queste graduatorie orchestrate con criteri non omogenei «stridono con la percezione e la reale esperienza dei cittadini», scrivono i due autori, «soprattutto quanto a liste d’attesa e spese per visite specialistiche». Percezione che non risulta campata in aria: i veneti sono costretti a integrare la spesa sanitaria pubblica con soldi che escono direttamente dalle loro tasche. Nell’out of pocket (dirlo in inglese sembra perfino bello) occupiamo le posizioni più alte in Italia.
Unica preoccupazione contenere le spese
La prima osservazione che si impone nell’esame del piano sociosanitario 2012-16 è la sterzata che la Regione imprime rispetto all’organizzazione precedente, cominciando a staccare l’intervento per la sanità da quello per i servizi sociosanitari. Con pesanti ricadute sul territorio, come vedremo. Ma il fatto più importante è la riforma delle Usl, trasformate nel 2016 in Aziende e portate da 21 a 9. Una per provincia era stata l’impostazione: poteva essere anche un criterio, peccato che le province venete siano 7, le due Aziende in sovrannumero (Veneto Orientale e Bassano) obbediscono a esigenze d’altro genere, evidentemente clientelari.
L’operazione provoca un allungamento a dismisura della catena di comando.
Scompaiono strutture ospedaliere bipolari, come Dolo-Mirano, Castelfranco-Montebelluna, Cittadella-Camposampiero, che facevano da filtro agli ospedali superiori. Questo nella convinzione che l’ospedale del capoluogo possa far fronte a tutte le funzioni. E in vigenza di un piano che prevedeva dimensioni tra 200.000 e 300.000 abitanti per ogni Usl si arriva a dimensioni di 900.000 abitanti per Azienda sanitaria.
A governare il sistema viene inventata l’Azienda Zero, che accentra tutte le funzioni (personale, acquisti, formazione, spesa, perfino l’attività istruttoria sulla programmazione…) svuotando di potere i 9 direttori generali, ma anche lo stesso
Consiglio regionale. «Niente del genere esiste in Italia», commenta un altro grande ex dell’amministrazione sanitaria regionale, Pietro Gonella, citato nell’appendice del libro. «Una struttura mastodontica, trofeo personale del direttore generale Domenico Mantoan, figlia di un decennio di guida militaresca della sanità veneta, annientatrice di qualsiasi spazio di dialogo e confronto».
Nell’esaminare quello che il piano prevedeva e quello che è stato fatto, Toniolo e Scardellato registrano che non si trova traccia della riduzione dei posti letto annunciata.
Si volevano governare le liste d’attesa con aperture serali e festive delle strutture pubbliche, offrendo prestazioni sanitarie in orari alternativi. I numeri dicono che è stato un fallimento: per le visite specialistiche risultano 136.203 accessi su oltre 4 milioni di prestazioni effettuate.
La copertura assicurativa rimane un grosso problema: polizze e compagnie inadeguate costringono le Aziende sanitarie ad autoassicurarsi e spingono i medici a praticare una medicina difensiva (mi salvo dalla mancanza di copertura assicurativa evitando di correre rischi, a danno del paziente).
La valutazione conclusiva è tranchant: tutta l’attenzione dell’amministrazione regionale è concentrata sul contenimento della spesa, che viene conseguito con tagli lineari. Chiamando i pazienti a contribuire alla spesa, soprattutto farmaceutica e specialistica, che dovrebbe essere invece coperta dalla sanità pubblica, nel 2012 il Veneto registra il più alto indice in Italia di compartecipazione alla spesa (out of pocket) con 64,5 euro per abitante. Cifra che diventerà molto più alta, una tassa sulla salute, alla faccia dell’abbassamento
delle tasse tanto sventolato.
L’altra leva per risparmiare è la forte riduzione del tournover del personale sanitario, tutti aspetti che andranno incontro ad un inasprimento negli anni successivi.
Il pronto soccorso più caro d’Italia
Il piano socio sanitario 2019-23 registra una innegabile apertura alla sanità privata: i posti letto accordati sono cresciuti del 7,62% nel quindicennio di Luca Zaia. Il presidente sostiene pubblicamente che i privati incidono solo per il 6% della spesa, ma bisognerà dirgli che si sbaglia.
Il conto economico lo smentisce: i soldi pagati dalla Regione alla sanità privata sono il 16,6% del bilancio del settore; i ricoveri nelle strutture private accreditate sono il 16,4% del totale ma raggiungono il 69% nella riabilitazione; le prestazioni specialistiche offerte dai privati sono il 13,7% del totale.
L’organizzazione della struttura pubblica ospedaliera presenta anomalie: per esempio i posti letto occupati nell’area medica sono complessivamente il 93% ma sono solo il 61% nell’area materno infantile, che risulta di conseguenza sovrastimata.
La vera emergenza è il pronto soccorso: il Veneto registra i tempi di attesa più lunghi d’Italia per i casi meno gravi, i codici bianchi, che sono il 55% delle intere prestazioni del servizio di pronto soccorso.
Da notare che il codice bianco prevede il pagamento del ticket, out of pocket, dalla tasca del paziente. Il 55% di codici bianchi a pagamento pone il Veneto in cima alla graduatoria nera delle regioni italiane: a grande distanza arriva la Val D’Aosta col 23%, poi l’Emilia Romagna col 12% e la Lombardia con l’8%.
E, quando le tasche sono vuote, non resta che ricorrere ai prestiti bancari. Secondo un’indagine di Facile.it la richiesta di prestiti personali per spese mediche nel Veneto è al 5,11% del totale degli accessi bancari, contro il 4,70% della media nazionale.
Nel quindicennio di governo Zaia c’è in particolare l’abbandono dei servizi sociosanitari, scaricati sui Comuni già alle prese con bilanci che piangono, attraverso deleghe difformi tra le varie Aziende sanitarie che creano grandi differenze tra Comuni capoluogo e Comuni minori.
Il 17% degli ospiti delle Rsa (case di riposo) pesano sulle famiglie per 120 milioni di euro, che, guarda caso, è la stessa cifra che Palazzo Balbi ha tolto dalle tasse regionali (tasse di scopo) sui redditi medio-alti.
Nella sanità veneta risultano mancare 1.300 medici per un costo complessivo di 130 milioni e 5.000 tra infermieri e tecnici per un costo pari a 280 milioni di euro. Sarebbero 410 milioni da registrare in rosso e invece consentono al manovratore l’agognato pareggio di bilancio.
Ne consegue che il sistema si regge sull’abnegazione degli operatori, finché dura, e sulle famiglie che pagano. La spesa privata out of pocket per sfuggire alle liste d’attesa è in costante aumento: nel 2021 ha toccato i 756 euro pro capite nel Veneto, circa 100 euro in più della media nazionale. Per prestazioni in parte rientranti nei Lea, livelli essenziali di assistenza: in tal caso si tratta di un diritto negato. Qui il Veneto registra una delle peggiori performance nazionali, collocandosi al terzo posto dopo Lombardia e Lazio.
Un’indagine della Fondazione Corazzin a fine 2023 segnalava che 7 veneti su 10 ritenevano peggiorato il servizio sanitario rispetto ai due anni precedenti.
Situazione che trovava conferma perfino in un’intervista di Luca Zaia al Corriere del Veneto (22 febbraio 2022): «Faremo una rivoluzione territoriale nella sanità, ci vogliono più posti letto, bisogna investire nei professionisti, nelle assunzioni e negli stipendi».
Non sono seguiti fatti concreti e il tempo è scaduto.
Sulla Sanità Veneta:
Storia critica 2008-24, con fondamentali riferimenti normativi nazionali
Franco Toniolo e Ubaldo Scardellato
(Ronzani Editore)








































