“Le notizie fanno disordine”, Bonazzi al convegno di VicenzaPiù su “Libertà di stampa e banche”

525

Vi presentiamo in video l’intervento in cui il collega Francesco Bonazzi (La Verità, Panorama, stampa estera e autore di libri come l’appena uscito W l’Italia) ha sviluppato il tema che ci aveva anticipato nelle sue linee guida per il convegno “Libertà di stampa, la prima fake news. Il caso banche, tra blandizie e intimidazioni” organizzato da VicenzaPiù per il suo 13° compleanno e che si svolto ieri, 11 marzo, in Apindustria Vicenza.

Al  lungo e approfondito esame della, preoccupante, situazione della stampa in Italia e a Vicenza hanno partecipato, oltre a Bonazzi e a numerosi rappresentanti di associazioni a tutela dei risparmiatori, alcuni dei cui interventi con le risposte dei relatori pubblicheremo più tardi, i colleghi Nicola Borzi e Renzo Mazzaro, il senatore M5S e giornalista Elio Lannutti, che è tra i firmatari di una proposta di legge contro le liti temerarie a danno dei giornalisti (attualmente chi vi scrive si sta difendendo in una decina di, costosi, procedimenti…), il capogruppo regionale di FdI, Sergio Berlato, l’ex dg di Bene Banca, Silvano Trucco, e il “mio avvocato” Marco Ellero.

Dopo l’intervento di Bonazzi, oltre al video con il convegno, da cui abbiamo eliminato i miei interventi per renderlo più snello e concentrato sul tema generale, e a quello con i presidenti di alcune associazioni, pubblicheremo anche gli interventi singoli di Nicola Borzi e degli altri relatori.

Ecco, quindi, la “traccia” dello speach di Francesco Bonazzi

 

Le notizie fanno disordine

Che brutta locuzione, “fake news”. Il primo a usarla su larga scala e da un pulpito opprimente e pervasivo, in tv, sui giornali, sui social, è stato Matteo Renzi. Ma attenzione, non il Renzi rottamatore, quello che sfidava i burosauri del suo partito, che voleva mandare in pensione definitivamente i D’Alema, i Bassolino, i Fassino, i Bassanini e gli Amato, i signorotti di Siena e del Monte dei Paschi, gli amici dei banchieri sbagliati e i capitalisti “illuminati” del Nord Est e del Nord Ovest, quelli che avevano sbolognato la ditta per mettersi comodamente al casello a riscuotere i pedaggi.

No, Renzi alla fine arriva al potere rottamando senza pietà il buon Pier Luigi Bersani, un uomo forse dell’altro secolo, ma una persona rispettabile, un politico generoso, umiliato in diretta streaming dai grillini, dopo le elezioni del 2013. E conquista Palazzo Chigi, nel febbraio 2014, pugnalando alla schiena Enrico Letta, un politico del quale magari possono non piacere l’europeismo entusiasta e i legami con la cosiddetta finanza bianca dei Bazoli e dei Guzzetti, finanza che comunque non era peggio di quella cosiddetta laica di Mediobanca, Ligresti e Unipol, e che però è un uomo di livello, preparato, che studia i dossier prima di twittare.

L’uso della locuzione “fake news” diventa ossessivo quando Renzi s’insedia a Palazzo Chigi.

Erano “fake news” gli articoli che La Verità e Il Fatto quotidiano dedicano allo scandalo Consip. Erano “fake news” le inchieste sugli strani fallimenti delle società di famiglia dei Renzi. Erano “fake news” gli articoli sull’aereo di Stato non esattamente da sobrio rottamatore che l’ex premier del Pd si  era scelto.

Ma cos’è l’espressione “fake news”? E’ un mezzuccio antico quanto pericoloso e si chiama “parola d’ordine”. Una parola che serve a mantenere l’ordine e mantenere l’ordine serve a mantenersi al potere. Tutti scimmiottano il Capo che usa la parola d’ordine. Con effetti a volte comici: l’assessore del paese di 2.000 abitanti che viene pescato a usare la macchina del Comune, in consiglio comunale si difenderà parlando di “fake news”. Ed è subito Watergate, Trumpgate, Clintongate, anche a Somma Lombarda e a Rocca di Cambio.

Ma anche “La gente chiede sicurezza”, “Prima gli italiani”, “Uno vale uno”. Non sono slogan innocenti, sono sempre parole d’ordine. Chiudono faglie e ricompattano il terreno. Distolgono l’attenzione e sigillano spaccature.

L’inchiesta giornalistica che non t’aspetti, lo scoop che porta alla luce uno scandalo, il lavoro di cronisti che non sono il Gabibbo o le Iene, con tutto il rispetto, ma che si spulciano i bilanci di una società, si vedono al bar con un ex manager, arrivano sui derivati prima dei pm, passano ore a spiegare al proprio direttore che quella storia va pubblicata e alla fine se ne fregano della pubblicità che verrà tolta e delle querele temerarie che verranno minacciate, tutto questo famoso “giornalismo d’inchiesta” del quale ci sciacquiamo la bocca, a livello nazionale lo fanno non più di venti colleghi.

Perché è ritenuto diseconomico, perché chi lavora così, alla vecchia maniera, con le fonti e con lo studio, e non con Google, senza farsi riempire le tasche della giacca dal pm di turno, ma provando ad anticiparlo, di solito ha anche una testa un po’ così, un carattere un po’ così, non sai mai bene dovrà andrà a parare.

Queste inchieste, in un sistema dei media che sembra pensato e organizzato per riversare sui lettori solo un chiacchiericcio che intrattiene e distoglie, sono degli squarci improvvisi, fenditure che vanno gestite e rinchiuse con le parole d’ordine, con i polveroni alzati dai giornali che hanno preso il buco e delegittimano chi ha trovato le notizie.

Ma per fortuna c’è anche un livello locale, dove a noi inviati capita di incontrare spesso, regione per regione, colleghi ben più coraggiosi di noi, che si occupano di mafia e di mafiette. Sono più coraggiosi di noi che partiamo da Roma e da Milano perché se li minacciano e li delegittimano fanno meno notizia, o nessuna notizia.

Siti internet che denunciano i sistemi di potere locali, la banca o il grande gruppo industriale che soffocano il territorio e condizionano la politica, denunciano il marciume del casino di Saint Vincent o il sistema Zonin, battendo i piatti mentre tutto intorno suonano i flauti.

Ma chi va fuori linea, chi svela una storia, chi ricostruisce i fatti dopo aver smontato la versione ufficiale, chi serve i lettori senza pettinarli nelle loro convinzioni, ma offrendo loro gli strumenti informativi per esercitare meglio i diritti di cittadinanza, non è un eroe, non è un qualcuno che fa qualcosa di strano, di eccentrico. E’ un giornalista che fa il suo dovere.

Ma non è nostro dovere solo cercare le risposte con professionalità e con un percorso inattaccabile e limpido. Come dimostra la vicenda delle copie farlocche del Sole 24 Ore di Roberto Napoletano, scoperta da Nicola Borzi, un vero giornalista è innanzitutto uno che si fa le domande giuste.

Nicola si è chiesto, a differenza di tanti suoi colleghi che magari poi gli hanno battuto una bella pacca sulla spalla e gli hanno consigliato di farsi i fatti propri, come fosse possibile che mentre tutti i giornali perdevano copie a rotta di collo, solo il Sole 24 Ore ne guadagnasse tante, e tutte o quasi digitali. Farsi la domanda giusta è il contrario di fare il pesce in barile. Vale in un giornale, vale in banca, vale in consiglio regionale, vale su un suicidio inspiegabile, vale in una diocesi che fa sparire un prete che l’ha fatta grossa, vale in un ospedale dove un grave errore medico è coperto dai fratelli di loggia.

Noi non abbiamo bisogno di giornalisti con la “schiena dritta” e che girano per procure con la sahariana a 12 tasche e pensano di essere Jack Nicholson in “Professione reporter” o Robert Redford che fa cadere il Presidente. La famosa schiena dritta, altra parola d’ordine pronunciata di solito ai convegni dei giornalisti da gente che ha appena finito di passare la velina di Giovanardi, dovrebbe essere un requisito scontato. Non solo chi è cinico non può fare questo mestiere, come diceva Richard Capuscinski, ma anche chi ha paura non può fare questo mestiere.

E allora, ai cittadini servono giornalisti preparati, laureati in economia, in legge, in ingegneria, in architettura, non in “giornalismo”. Servono giornalisti che sappiano farsi le domande giuste.

Servono giornalisti che si ricordino ogni mattina quello che all’Espresso ci diceva il nostro gigantesco avvocato, Oreste Flamminii Minuto: “Voi siete violatori professionali di segreti, se no non servite a niente”. Se uno ha ben chiaro questo insegnamento, tutto il resto, dai processi per diffamazione, alla contestazione del reato di ricettazione, dalle perquisizioni alle presunte violazioni del segreto di Stato, assume i suoi giusti contorni.

I contorni di una reazione che può anche essere spettacolare ed esemplare, ma resta fondamentalmente una risposta meschina e rivelatrice di una grande, ottusa, debolezza. Una debolezza che se non cade oggi, tanto cadrà domani.

 

Francesco Bonazzi