
(Articolo sul Centro Antiviolenza da VicenzaPiù Viva n. 303 sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr).
In occasione di questo numero dedicato in buona parte all’Universo donna, dato che il 25 novembre ricorre la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, abbiamo voluto portare la testimonianza di chi la violenza di genere la vive e la combatte ogni giorno, con un’intervista ad un’operatrice del centro antiviolenza di Vicenza (CeAV), che, per tutelare il centro e la privacy delle donne che segue, preferisce rimanere anonima.
Qual è il lavoro concreto del CeAV, come funziona un percorso dal momento in cui una donna si rivolge al centro?
Innanzitutto, noi preferiamo che sia la donna a contattare il servizio personalmente, anche se a volte arriviamo a conoscenza della situazione tramite forze dell’ordine o familiari, perché crediamo che una donna possa fare un percorso utile solo se è lei in primis a voler prendere in mano la situazione.
Nel caso di donne mandate da noi dal tribunale o da amici, e quindi con poca convinzione, abbiamo notato che il percorso è meno efficace. Per quanto riguarda invece il percorso vero e proprio, abbiamo diversi sportelli sul territorio: il centro principale si trova a Vicenza nel quartiere Ferrovieri in via Vaccari 113, ma abbiamo attivato due sportelli territoriali a est e ovest, uno a Pojana Maggiore e uno ad Arzignano, aperti meno giorni alla settimana ma fondamentali per garantire la possibilità di accedere al servizio a tutte le donne del territorio. Recentemente poi, abbiamo aperto uno sportello anche all’Università, per raggiungere più donne possibile in tutte le fasce d’età. Quando una donna viene da noi, procediamo innanzitutto con una valutazione del rischio, attraverso domande specifiche sul contesto, la presenza di armi, minacce, dipendenze, ecc. I colloqui in presenza avvengono in due, con due figure professionali diverse. In particolare, nel nostro centro sono presenti anche psicologhe, educatrici pedagogiste e assistenti sociali, ma con noi collaborano anche psicoterapeuti e avvocati esterni. Per me è importantissimo sottolineare che nel nostro lavoro di operatrici noi siamo soprattutto strumenti.
Quello che deve passare alle persone è che l’importanza del nostro lavoro è il sostegno che forniamo: noi possiamo dare alle donne le informazioni che servono e dare quella mano che magari manca, quella spinta in più per uscire dalla situazione di violenza.

Quali strumenti e approcci usate durante i colloqui?
Alla base di tutti i nostri interventi ci deve essere la fiducia; quindi, il primo obiettivo è proprio creare un rapporto di fiducia e ascolto empatico con le donne con cui veniamo a contatto. Usiamo strumenti come il questionario SARA per valutare il rischio di recidiva, comprese le situazioni più gravi come femminicidio. L’ascolto attivo e le domande precise ci permettono di capire frequenza, gravità e caratteristiche della violenza. Ogni percorso è personalizzato: alcune donne necessitano di misure di protezione immediate come case rifugio, altre di progetti più lunghi per emancipazione, lavoro, lingua o inserimento sociale.
Nel nostro lavoro ci troviamo davanti ad ogni tipo di situazione, arrivano donne già molto emancipate e consapevoli ed altre che letteralmente non hanno niente e che sostanzialmente non esistono. In questi casi dobbiamo inventarci di tutto per poterle aiutare, coinvolgendo le associazioni di volontariato e ogni tipo di aiuto possibile.
L’obiettivo è creare autonomia e sostenere le donne anche dopo l’emergenza, non solo durante la permanenza nel centro.
E per quanto riguarda il supporto legale e psicologico?
Abbiamo convenzioni con avvocati per consulenze legali gratuite e psicologhe interne per supporto iniziale. Lavoriamo insieme alle assistenti sociali per seguire il percorso della donna, anche quando decide di entrare in strutture protette. Il percorso può durare anche anni, con monitoraggi periodici per verificare la sicurezza e il benessere della donna e dei figli.
Come si rapporta il centro con forze dell’ordine, ospedali e giudici, soprattutto per evitare la vittimizzazione secondaria, ovvero quella forma di sofferenza aggiuntiva che subisce la donna vittima di violenza, causata dalle procedure e dalle interazioni con le istituzioni dopo la denuncia?
La situazione è migliorata rispetto al passato. Ci sono figure femminili formate nelle stazioni dei carabinieri e nelle questure, e lavoriamo in rete per garantire un primo supporto adeguato. Ovviamente la vittimizzazione secondaria non è stata debellata e purtroppo riceviamo ancora segnalazioni, ma devo dire che la situazione è molto migliorata e davvero c’è un impegno da parte di tanti attori diversi per la formazione su queste pratiche con le forze dell’ordine, gli ospedali e i servizi.
Si sente parlare sempre più spesso di violenza di genere agita online (come ad esempio la condivisione non consensuale di materiale intimo o il cyberstalking), un problema allarmante perché riguarda moltissimo anche i giovanissimi, vi capitano casi al CeAV?
Per quanto riguarda i giovanissimi, dato che i centri antiviolenza per legge operano solo con le donne maggiorenni, l’associazione Donna Chiama Donna ha attivato il progetto “Il Filo Sottile”, uno sportello dedicato a ragazzi dai 14 ai 18 anni per affrontare problemi legati all’affettività, al controllo e al cyberstalking. Per quanto riguarda il centro invece, tutte noi operatrici siamo state formate dalla Polizia Postale, con la quale collaboriamo per gestire questo genere di situazioni. Non abbiamo un’equipe specializzata solo per la violenza digitale, ma tutte le operatrici sono formate per affrontarla.
Ci sono cambiamenti nelle tipologie di utenti?
Sì, negli ultimi anni vediamo più giovani tra i 18 e i 25 anni. La digitalizzazione ha complicato la violenza domestica: geolocalizzazione, accesso ai social e controllo costante peggiorano le dinamiche di controllo anche delle situazioni di marginalità, ad esempio con donne vittime di tratta. Rimane comunque da specificare che purtroppo la violenza di genere è un fenomeno trasversale e colpisce donne di tutte le etnie, religioni ed estrazione sociale.
Molti Centri antiviolenza in Veneto sono in allarme per la modifica del principio di esclusività dell’Intesa Stato-Regioni, che vorrebbe tra le altre cose che questo genere di centri si occupasse solo di donne. Come sappiamo però, molti centri antiviolenza vengono gestiti da cooperative e associazioni che si occupano anche di progetti di integrazione, di tutela dei minori o altri, e rischiano perciò di chiudere. Voi a Vicenza come la pensate?
Siamo molto preoccupate. A Vicenza l’associazione Donna Chiama Donna (ndr. l’associazione che ha in appalto il CeAV) non è a rischio, ma molte case rifugio lo sono e nel momento in cui vengono a mancare le case rifugio manca un’importantissima tutela alle donne vittime di violenza. Per il nostro centro comunque, il problema principale al momento è la richiesta di introdurre la reperibilità h24. Tolto il fatto che con i fondi a nostra disposizione non è sostenibile economicamente, rischia di concentrare molte delle nostre forze solo sull’emergenza, riducendo la capacità di noi operatrici di lavorare nel lungo periodo e nel cambiamento di consapevolezza e prospettiva che cerchiamo di infondere sulle donne che assistiamo.
Noi crediamo che i percorsi debbano lavorare sull’autonomia e sulla consapevolezza, non solo sull’intervento immediato. Per come è strutturato ad oggi il nostro sistema di tutele i pilastri sono tre: i centri antiviolenza che si occupano delle donne, i centri per uomini autori di violenza (Cuav) che si rivolgono agli uomini maltrattanti e i percorsi per i minori che assistono a violenza in casa.
Crede che ci sia una mancanza di collaborazione tra queste realtà?
Sì, storicamente ogni servizio tende a seguire il proprio percorso. Tuttavia, negli ultimi anni vediamo una maggiore attenzione alla collaborazione. Noi, per esempio, stiamo lavorando con un ente del privato sociale che gestisce percorsi per minori e coinvolge anche noi nelle riunioni relative alla presa in carico dei bambini e delle madri.
Con i Cuav, invece, la collaborazione è più complessa. Non possiamo condividere informazioni sui minori o sulla donna per motivi di privacy, e loro altrettanto. Ci sono iniziative di formazione e sensibilizzazione congiunte, che ci permettono di capire meglio il percorso maschile, ma la rete operativa non è ancora consolidata.
Quindi, secondo lei, gli uomini autori di violenza potrebbero essere considerati anche loro vittime del patriarcato?
Sì, in parte. Crediamo che il vero cambiamento passi dal lavoro con gli uomini, dagli autori di violenza. Oggi ci sono percorsi obbligatori previsti in ambito giudiziario, ma la motivazione spesso manca se l’uomo lo fa solo per ridurre la pena. Vale lo stesso discorso che facevo prima per le donne: la presa in carico deve partire dalla loro volontà, se non sono loro a decidere di intraprendere un percorso, è difficile aiutare davvero.
Il Centro Antiviolenza di Vicenza opera attraverso una sede principale in via Vaccari 113 e una rete di sportelli territoriali – ad Arzignano, Pojana Maggiore e presso la sede del Dipartimento di Tecnica e Gestione dei Sistemi Industriali dell’Università – per garantire un accesso più capillare e agevole ai servizi di supporto per le donne vittime di violenza.
Se sei vittima di violenza o stalking chiama il 1522. Il 1522 è un servizio pubblico promosso dal Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il numero è gratuito, attivo 24 ore su 24 e accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking. Per avere aiuto o anche solo un consiglio chiama il 1522 oppure chatta direttamente con una operatrice sul sito www.1522.eu o via app. L’accoglienza è disponibile in italiano, inglese, francese, spagnolo, arabo, tedesco, e su appuntamento: albanese, persiano, algerino, siriano, siro-libanese, marocchino, egiziano, berbero e cinese.


































