COP30, l’Italia tra diplomazia e realismo climatico: intervista ASIB all’Ambasciatore Alessandro Cortese

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L'Ambasciatore Alessandro Cortese (dx.) e Paolo Carlucci
L'Ambasciatore Alessandro Cortese (dx.) e Paolo Carlucci

Il rappresentante italiano alla COP30 analizza sfide, assenze dei grandi Paesi inquinanti, finanziamenti, ruolo dell’Italia e futuro del multilateralismo climatico.

A dieci anni dagli Accordi di Parigi, la COP30 di Belém si apre con una consapevolezza netta: il limite di +1,5 °C è oggi chiaramente fuori portata. Ma per l’Ambasciatore italiano a Brasilia, Alessandro Cortese, presente alla Conferenza come osservatore privilegiato, non è il momento di parlare di “fallimento”. È invece il tempo, dice, di rilanciare la cooperazione internazionale e di dare concretezza agli impegni già assunti.

Aquapraca, COP30
Aquapraca, COP30

Lo incontriamo (virtualmente perché fisicamente e per noi c’era il collega Paolo Carlucci, Vice-Presidente  ASIB – Ass.Stampa Italiana in Brasile) nella città amazzonica che ospita la Conferenza, in un contesto segnato dalla grande ambizione del Brasile e dall’assenza di alcuni attori globali chiave. Con lui analizziamo lo stato della diplomazia climatica, il ruolo dell’Italia e il futuro del multilateralismo.

Ambasciatore Cortese, dieci anni dopo Parigi si riconosce pubblicamente che il limite dei +1,5 °C è ormai quasi irraggiungibile. È un fallimento della diplomazia internazionale?
«Preferisco non usare il termine “fallimento”. È evidente che il traguardo è oggi molto difficile da raggiungere, ma il processo multilaterale non si è mai fermato. Le COP servono proprio a questo: mantenere alta l’attenzione politica e ricordare ai governi che il tempo è poco. Ci sono state circostanze complesse, inclusa l’uscita di un partner fondamentale dai negoziati, che hanno rallentato il percorso, ma la diplomazia continua a lavorare. Le proposte brasiliane puntano proprio a rilanciare ciò che è stato deciso a Parigi e poi a Baku.»

Uno dei punti più delicati è la mobilitazione di 1.300 miliardi l’anno per i Paesi in via di sviluppo. È un obiettivo realistico?
«Gli obiettivi devono essere ambiziosi, altrimenti si rischia l’immobilismo. A Baku si è partiti da questa cifra per arrivare poi a un obiettivo negoziale di 300 miliardi, comunque importante. La sfida non è solo fissare la cifra, ma monitorare l’attuazione. Per questo servono anche strumenti innovativi: partenariati pubblico-privati, un maggior coinvolgimento delle banche di sviluppo, investimenti privati. In questo senso l’Italia è molto presente. Al Padiglione italiano Enel ha illustrato progetti nel settore delle rinnovabili in Brasile, mentre Cassa Depositi e Prestiti ha mostrato come sostenga iniziative su scala globale. È una filiera di competenze che il nostro Paese porta con autorevolezza.»

Il Brasile ha lanciato una COP fondata su sei pilastri che uniscono ambiente, sviluppo umano e finanza verde. Dove si colloca l’Italia in questa visione?
«L’Italia insiste da tempo, come il Brasile, sul ruolo dei biocarburanti quale alternativa pulita ai combustibili fossili. Credo che a Belém il Brasile stia cercando chiavi di lettura nuove per avanzare nel negoziato. Il nostro Paese può essere ponte tra Europa e America Latina soprattutto in due ambiti: energia e tutela della biodiversità. Ed è un ruolo che viene riconosciuto.»

L’assenza di Stati Uniti, Cina, India e Russia ha pesato sulla Conferenza. Quanto è difficile negoziare senza questi attori?
«Dobbiamo distinguere: alcuni leader non erano presenti, ma Cina e India erano comunque rappresentate ad alto livello. La Russia ha mantenuto un profilo più basso, legato anche alla situazione geopolitica. L’assenza più rilevante è quella degli Stati Uniti: la scelta politica pesa e incide sulle ambizioni della Conferenza. Tuttavia oltre 50 Paesi erano presenti con i loro capi di Stato o di Governo. L’Italia ha scelto di esserci al massimo livello, prima con il Vicepresidente del Consiglio Tajani e poi con il Ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin. È un segnale importante.»

Crisi energetica, tensioni geopolitiche, conflitti: l’ambiente rischia sempre di passare in secondo piano?
«È esattamente ciò che sta accadendo. Ogni Paese ha priorità immediate, soprattutto in tempi di instabilità internazionale. È comprensibile, ma anche molto problematico. Perché la crisi climatica non aspetta. L’equilibrio tra crescita economica e sostenibilità è oggi più difficile, ma rimane l’unica strada percorribile.»

Il cambiamento può arrivare anche “dal basso”?
«Senza dubbio. La pressione sociale, culturale e scientifica è essenziale. Le COP funzionano perché il mondo intero sa che il clima è un tema urgente. E questa consapevolezza viene in gran parte dall’opinione pubblica, dalle ONG, dalle comunità scientifiche. Il multilateralismo è complesso, ma necessario: nessun Paese da solo può risolvere la crisi climatica.»

Lei conosce bene Belém: come ha trovato la città in occasione della COP30? E che ruolo ha avuto il padiglione italiano?
«Sono stato a Belém molte volte negli ultimi due anni e devo dire che la città è molto cambiata. Le infrastrutture sono migliorate significativamente per accogliere decine di migliaia di persone. L’Italia ha donato una piattaforma galleggiante straordinaria, AquaPraça, progettata da Carlo Ratti: un’opera architettonica che sta avendo un successo enorme, con oltre 25.000 visitatori in pochi giorni. È diventata un simbolo della COP e resterà alla città come lascito culturale. Un modo concreto di mostrare quanto teniamo al Brasile e alla riuscita di questa Conferenza.»

In un momento storico segnato da incertezze e tensioni, la voce dell’Ambasciatore Cortese alla COP30 appare secca ma costruttiva: la transizione ecologica è difficile, rallentata, complessa, ma resta inevitabile. E l’Italia — tra cooperazione, tecnologia, diplomazia e cultura — intende giocare la sua parte.