Draghi, l’ora più buia per M5S e PD: due partiti che potrebbero pagare caro il sì alla fiducia

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Zingaretti Di Maio PD e M5S
Zingaretti Di Maio

È andata proprio come sussurravano e immaginavano in tanti, dentro e fuori i Palazzi di ogni ordine e grado. Nella sera in cui viene giù tutto, Giuseppe Conte vede avvicinarsi a Palazzo Chigi Mario Draghi, professore come lui, chiamato dal Quirinale come il salvatore della patria. Forse se lo aspettava anche Conte un finale così, anche quando alla festa del Fatto a settembre lo disse con sillabe da rito scaramantico: “Quando lo si invoca, lo si tira per la giacchetta. Non lo vedo come un rivale: lo avrei visto bene come presidente della Commissione Ue, ma mi disse che era stanco della sua esperienza europea”.

Sei mesi dopo, eccolo Draghi. Ed ecco Alessandro Di Battista, ex deputato ma attualissimo big dei Cinque Stelle, che gli sbarra la strada. “Repetita iuvant” scrive su Facebook, postando un suo articolo dello scorso agosto su Tpi in cui bollava l’ex presidente della Bce come “apostolo delle élite”. L’ex eletto pubblica tutto 58 minuti prima che il Quirinale renda noto di aver convocato il professore. A notizia appena diffusa, Di Battista parla con il Fatto: “Draghi se lo votasse Renzi, che ha fatto tutto questo con l’obiettivo di non far gestire al M5S i soldi del Recovery Fund. Se lo votasse mezzo Pd, che ha lavorato contro Conte, e se lo votasse Salvini che lo elogiava in Parlamento”. E i suoi, i 5Stelle? Su questo non parla. Sa che Draghi metterà in grandissima difficoltà i grillini.

Il corpaccione parlamentare e più di qualche big invocavano già il voto anticipato, quando il Colle ha calato la carta che non era affatto nascosta. Volevano e vorrebbero il voto anticipato, con Conte leader, traino, anche con una sua lista che, assicurano in diversi, “è un progetto già in stato avanzato”. E ora rischiano seriamente di farsi malissimo, di perdere per strada un po’ di giovani deputati, quelli più contrari al Mes per capirci, assieme a veterani stanchi di troppe cose. Toccherà soprattutto all’ex capo ma leader di fatto Luigi Di Maio cercare un senso in mezzo al caos da fine del mondo. Difficile, perché la prima reazione della pancia del Movimento pare un no, e il deputato Luigi Gallo lo scandisce per primo. “Ma dobbiamo restare lucidi, e poi se non regge un esecutivo tecnico può sempre subentrare un altro governo politico” immagina e soprattutto spera una fonte di governo grillina. Pare più complessa di così, mentre Conte fa sapere di non voler dire nulla, di voler ancora stare zitto dopo giorni di silenzio “per doveroso riserbo sull’evoluzione della crisi di governo”.

Per il Pd è lo scenario peggiore. Nicola Zingaretti, Andrea Orlando e Goffredo Bettini si sono spesi per settimane per dire che dopo il Conte ter c’è solo il voto. Ma la direzione in realtà non gli aveva dato un mandato così netto, le subordinate in vista di un governo istituzionale erano sul tavolo. Soprattutto, i dem non sono in condizione di dire di no a Mattarella e Draghi. La condizione in cui si trova il Pd la riassumono le parole di Andrea Orlando: “Discuteremo al nostro interno. Il percorso indicato dal Capo dello Stato merita tutta l’attenzione e la disponibilità, ma se era difficile mettere insieme 4 forze politiche che avevano fatto un percorso insieme, non sarà semplice mettere insieme forze politiche che insieme non hanno fatto e non faranno niente”.

Dietro l’angolo, c’è un cambio di linea politica, un congresso di fatto sulla segreteria di Zingaretti. Matteo Renzi gongola: “Abbiamo ascoltato le sagge parole del presidente della Repubblica Mattarella: ancora una volta ci riconosciamo nella Sua guida. E agiremo di conseguenza”. Di fatto, è il suo schema che ha vinto. Ha disarticolato il sistema, ucciso amici, ex compagni di partito, alleati e alleanze future. Ora è pronto a vendersi il fatto di aver lavorato per portare in Italia “Mandrake”. Raccontano dalla Lega che ha, se non un accordo, almeno un’interlocuzione con Matteo Salvini, per arrivare all’astensione della Lega. Sarebbe la vittoria dello schema di Giancarlo Giorgetti, con il Carroccio che si sposta verso l’europeismo. D’altra parte c’è già Emilio Carelli, che sta organizzando un gruppo con i fuoriusciti M5s, in accordo con il leader leghista. Facile immaginare da parte loro un sostegno all’ex presidente della Bce. Il sì di FI appare già scontato. Nel frattempo, i presunti ribelli di Italia viva si mangiano le mani: erano in 3 pronti ad uscire, ne servivano 4 per arrivare ai fantomatici 161 voti su Conte. Ora voteranno tutti la fiducia senza fiatare. Un’irrilevanza – la loro e quella di molta politica – che appare in tutta la sua evidenza.

di Luca De Carolis e Wanda Marra