
Cento se non più persone, sala piena nella grande sala della ex Circoscrizione 7 ai Ferrovieri, per un tema che in città “brucia” da 70 anni: “Militarizzazione di un territorio urbano e la situazione particolare di Vicenza“. Sul palco per la storica “Scuola del lunedì” c’erano Daniele Bernardini, Emilio Franzina e Giovanni Marangoni per una serata della densa, che ha intrecciato lessico, storia e cronaca locale, con una domanda centrale: Vicenza deve definirsi una città militarizzata? (a seguire video totale)

A fissare i paletti concettuali è stato Daniele Bernardini. “Militarizzazione” non è sinonimo di “presenza di militari”, ha spiegato, ma di un condizionamento strutturale della società civile da parte di logiche e priorità militari. Qui l’elenco è concreto: Camp Ederle, Del Din, la Miotto ex Pluto, il CoESPU alla Chinotto… Intorno alle installazioni militari ruotano, secondo i dati richiamati, circa 14.000 persone (tra militari, familiari, personale civile statunitense e lavoratori italiani). È come innestare dentro Vicenza una città media.
La questione “militarizzazione”, per Bernardini, emerge nei fatti: scelte viabilistiche e urbanistiche funzionali alle basi (dalla tangenziale Aldo Moro ai collegamenti dedicati), porzioni consistenti di suolo sottratte ad altri usi, protocolli decisivi calati dall’alto. E poi la sfera più delicata: il controllo civile su rischi, materiali e flussi che transitano in aree sottratte alla piena trasparenza. Non si tratta – ha insistito – di contrapporre “militari” e “civili” in astratto, bensì un modo di governo: accentramento, obbedienza e urgenza operativa contro dialettica, partecipazione e responsabilità diffusa. Applicato a una città PatrimonioUNESCO, il conflitto tra logiche è inevitabile: quando la priorità è la missione, il contesto urbano diventa variabile dipendente.

Se Bernardini ha messo a fuoco la semantica e i dati oggettivi, Emilio Franzina ha allargato l’obiettivo nel tempo lungo. Da storico, ha ricordato che la presenza USA a Vicenza nasce nel dopoguerra dentro un equilibrio atlantico in cui l’Italia, sconfitta, diventa avamposto strategico. Ma col passare dei decenni – tra guerre “per procura”, crisi mediorientali e allargamento dei dispositivi militari – quella che era una presenza da “alleato” ha assunto tratti più rigidi e da “dominus”. Franzina ha richiamato la memoria delle comunità: il modo in cui le basi hanno inciso su luoghi, prezzi, servizi, perfino sull’immaginario cittadino. E ha toccato un punto sensibile: il rapporto fra patrimonio, identità urbana e rischio. In un’epoca di instabilità globale, è razionale concentrare in un sito UNESCO apparati che possono diventare obiettivi sensibili?
La sua risposta, più di una volta, è stata un invito alla consapevolezza civica: riconoscere i legami internazionali senza rinunciare al diritto delle comunità a conoscere, valutare, decidere senza diktat esterni, specialmente quelli di un’Amministrazione Usa che con Trump sta perdendo anche la precedente parvenza di una grande nazione libera e rispettosa della libertà altrui con le tante guerre scatenate e finanziate. In quest’ottica Franzina è tornato sull’Italia-America Friendship Festival, iniziativa estremamente criticata e spunto/provocazione iniziale per il suo ultimo saggio (“America sorella? Italiani e italo discendenti tra Usa, Brasile e alter Americhe”), che già nel titolo spiega il diverso senso di amicizia italo americana distinguendo tra quella del nord e quella del sud.
Terzo snodo, quello ricostruito da Giovanni Marangoni: il filo degli ultimi vent’anni, dall’annuncio di Del Din alle compensazioni, dai pareri UNESCO alle opere di contorno (tangenziale, accessi, servizi), fino al Parco della Pace e alle mobilitazioni di base. Marangoni ha intrecciato atti, cronache, lettere, missioni di ispezione e raccomandazioni, mostrando come il “doppio binario” – ampliamento militare da un lato, mitigazioni e parco dall’altro – abbia spesso viaggiato in parallelo, raramente in reale coordinamento col quadro UNESCO e con la cittadinanza. La sua mappa di dettagli – dal drenaggio che non funziona ai protocolli di rischio NBCR da valutare con la Prefettura, fino ai traffici militari su gomma segnalati – non è un inventario di lamentele, ma una chiamata a procedure chiare: piani di gestione, trasparenza su materiali e percorsi, responsabilità definite e partecipazione informata.
Alla fine, l’incontro ha prodotto due esiti utili.
Primo: il termine “militarizzazione” non va usato come slogan, ma misurato sui processi. A Vicenza, i processi ci sono: infrastrutture orientate, porzioni di città sottratte al controllo pieno, priorità non locali che guidano decisioni locali.
Secondo: la compatibilità con lo status UNESCO non è un timbro da esibire, ma un metodo da praticare – valutazioni preventive, progettazione integrata, gestione del rischio trasparente, tutela del contesto oltre i monumenti.
Il confronto sulla militarizzazione di Vicenza non si chiude qui. Ma una cosa è emersa con nettezza: per una città che guarda al mondo (e che il mondo guarda), la domanda non è “basi sì o no” in astratto; è “quale governo pubblico dello spazio, della sicurezza, dell’acqua, della mobilità, della memoria”. In altre parole: quale Vicenza vogliamo costruire, e con quale patto tra istituzioni, comunità e alleati.
E, soprattutto, sono unanimi i tre relatori e il pubblico presente che li ha applauditi spesso e a lungo, la Vicenza che vogliamo costruire e rilanciare dipende da noi o dalle “servitù”, non solo fisiche, che la circondano?