Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro, Langella: “Di cosa stiamoparlando”?

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Giornata salute e sicurezza

Il 28 aprile è la Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro. Ma di quale salute stiamo parlando? E di quale sicurezza? Per chi lavora sono termini vecchi, talmente in disuso che ci si è abituati alla loro assenza. Certo, quando qualcuno viene ucciso al lavoro, se l’incidente è particolarmente cruento, ci si piange addosso, si promette il “mai più”, il “vigileremo”, il “sono cose, queste, indegne di un paese civile” … e poi? Poi niente, tutto torna nella nebbia, viene nascosto, occultato … diventa “cronaca nera” nella quale, si sa, si trovano mille scuse, dalla “tragica fatalità” alla “disattenzione”. Si torna a pensare “tanto a me non succede”.

Eppure ogni giorno assistiamo a infortuni, malattie professionali, morti sul lavoro. I numeri, quando si tenta di fare il punto, sono altissimi e, smentendo le notizie istituzionali che tendono a farci pensare che, tutto sommato, il “fenomeno” sia, seppur grave, comunque in calo. Ma non è così specialmente se si considerano chiunque lavori anche quelli che non sono assicurati INAIL. Quasi che i precari o chi lavora in nero non avessero un nome e un cognome, un volto, sorrisi, speranze. Quasi fossero già prima di morire dei fantasmi.

Si inizi a prendere coscienza della tragedia, si fermi la mente sul quanti sono stati i morti per infortunio nei luoghi di lavoro da inizio anno ad aprile negli ultimi nove anni. I numeri sono là, impietosi, freddi a mostrarci come il calo non esista. Tutt’altro:

2015: 187
2016: 191
2017: 197
2018: 205
2019: 209
2020: 147 (non sono conteggiati i decessi causati dal covid-19 contratto nei luoghi di lavoro)
2021: 184
2022: 204
2023: 231 (il 31 marzo erano 161)

(Fonte: Osservatorio Nazionale morti sul lavoro curato da Carlo Soricelli Iadanza)

E si ricordi anche che i morti per malattia professionale sono centinaia ogni anno. Basta pensare ai decessi per malattie dovute all’amianto che uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità nel periodo tra il 2010 e il 2016, li calcola in almeno 4.400 ogni anno.

Ma perché si parla e si scrive poco di questa strage e degli infortuni spesso talmente gravi da costringere la vittima a una vita spezzata? Ci si deve convincere che esiste anche un problema culturale, una perdita di importanza che parte anche dalla disattenzione di “piccole cose”. Dal credere, per esempio, che il lavoro sicuro non sia un diritto ma solo una fortuna, un privilegio. Dal fatto di considerare lavoratrici e lavoratori non persone ma “capitale umano”, qualcosa, quindi, quantificabile in denaro. “Cose” che vivono ogni giorno con la paura di essere “scartate”, rimpiazzate con qualcosa di più economico e che, per questo, devono lavorare di più, peggio, nel pericolo e senza garanzie. La sicurezza costa, il rispetto di normali regole costa, i lavoratori stessi sono un costo. Allora, che sia anche per questo che si fa poco o nulla? Che trionfi l’indifferenza? Che vinca la rassegnazione?

Si guardino i numeri. I morti sul lavoro sono troppi per poter pensare che si sia di fronte a qualcosa di talmente normale per la quale è inutile anche solo pensare di trovare soluzioni. E che non esistono responsabilità o colpevolezze. I responsabili e i colpevoli, invece, esistono. Solo che spesso, se non sempre, sfuggono a una giusta condanna anche a causa di una legislazione “morbida” e di una giustizia “lenta” che garantiscono impunità e prescrizione.

È una situazione intollerabile. Per questo, come PCI, chiediamo da tempo un passo importante per contrastare questo massacro tragedie con l’introduzione nel codice penale del reato di omicidio sul lavoro.

Invece di aumentare le spese militari, invece di dilapidare i nostri soldi in armi e guerre, si investano le risorse necessarie (anche nella ricerca e nelle nuove tecnologie) perché il lavoro sia migliore, più sicuro, meno faticoso e giustamente retribuito. Così come è scritto nella nostra Costituzione.

Facciamo appello a chi ha ancora coscienza, a chi dovrebbe interessarsi della salute e della sicurezza di chi lavora: è necessario lottare e pretendere che il lavoro non voglia dire creare profitto per pochi, ma significhi progresso e benessere per tutti. Una vita degna di essere vissuta.

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Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.