Heysel, una notte che non dimenticherò mai

18

Era il 29 di maggio del 1985. Ho ancora un piccolo quadro acquistato sulla Grand Place, tulipani e farfalle dipinti da mano innocente. Voleva essere il souvenir di Bruxelles, dell’Heysel, di Liverpool-Juventus finale della Coppa dei Campioni 1984-’85. Invece…
Erano infastiditi, i miei colleghi, in tribuna stampa. La partita non cominciava, mancavano notizie. Avevamo visto ondeggiare stravolta la Curva Z, alla nostra sinistra. ‘Ma chissà cos’è successò. Io sono razzista, nel senso che ce l’ho coi belgi: ricordi di passaggi rognosi con il Tour, è vero, ma soprattutto perchè nel 1948 il mio primo piccolissimo amore, Gabriella, mi aveva lasciato a Rimini ed era andata con la famiglia a Marcinelle. E papà – si chiamava Nazzareno Guidi – era morto in miniera. Mi fa ribrezzo sentire, oggi, italiani che si lamentano della dura vita ma nel Belgiaccio, oggi, ci arrivano in carrozza, magari da onorevoli europei.
I belgi erano inetti, non so oggi. Fecero entrare migliaia di liverpooliani briachi senza controllarli. Avevano con sè non bottiglie ma casse di birra.
Intelligenti come scimpanzè in cattività, i gendarmi avevano chi mettere insieme ai dementi della Curva Z: italiani, ma italiani speciali, papà coi ragazzi, e quando sotto la spinta degli inglesi vigliacchi è caduto quel muro portandosi appresso tanta gente, ecco, son partiti verso il cielo i nostri 32 morti. Ma gli inetti belgi in silenzio.
A un certo punto ho lasciato la tribuna stampa, Brera che smarronava, Ameri che annaspava. Ho sceso scale sconnesse, sono arrivato a terra, dove poggiavano le strutture pericolanti dell’Heysel. Ho chiamato qualcuno, inutilmente. Poi ho visto un portoncino verde , come una casa di campagna che dà sull’orto. Ho aperto…sono ancora qui che piango: c’era una montagna di cadaveri, buttati lì come per far pulizia. Una testa giovane in cima alla mucchia, girata verso di me, mi guardava con gli occhi spalancati. Corsi subito indietro, sulle anguste scale, ritrovai la tribuna stampa, e Ameri con le cuffie: ‘Cos’hai visto?’, ‘Una montagna di mortì. Mise la mano sul microfono, incazzato: ‘Non si può dire!’. Poi riprese con voce normale: ‘Si attendomo notizie…Non fate caso agli allarmi fantasiosi. Vi diremò.
Mi presi del falsario e più tardi – consumata la tragedia – prevalse il predicozzo di Pizzul, gran telecronista, e basta: ‘Non si deve giocare, non si deve giocarè. Brera piangeva: ‘Ho fatto questo mestiere per raccontare i vivi, non i mortì. Io, vecchio cronista di nera, sapevo perchè si doveva giocare: migliaia di tifosi juventini avevano capito cos’era successo, stavano armandosi per la vendetta…Cominciò la partita e intanto i maledetti Reds della Curva Z venivano prelevati dalla polizia, caricati sui cellulari, portati all’aeroporto, spediti. Per impedire una carneficina.
Ma cosa sanno, anche oggi, gli intellò, quelli che c’erano ma non sapevano, quelli che non c’erano ma non capivano, quelli che rubano al più bel dizionario belle parole per raccontar cazzate. Quelli che anche oggi, magari pedatori vip di quella maledetta partita, dicono ancora ‘non si doveva giocarè.
Venne la notte e mi avvicinai alla curva Z con quattro fiori trovati in un un addobbo. Ero con il ministro De Michelis e Sven Eriksson. Un gendarme ci aggredì, voleva cacciarci, vide la mia faccia, sparì. Restammo in silenzio a pregare col nodo alla gola.
E quella notte non la dimenticherò mai. E quei belgi…E dire che gli abbiamo dato il governo dell’Europa.
Poi scrissi sul Guerin Sportivo, dopo aver scelto le foto del massacro (non dico strage perchè le stragi, per i media italiani, cominciano da due morti): ‘Ho odiato con tutte le mie forze l’orda selvaggia di Liverpool, quei lupi ubriachi che si sono gettati con furia sanguinaria sugli agnelli indifesi del maledetto settore Z, tutta gente tranquilla, estranea alle ben note risse del calcio, desiderosa solo di vivere qualche ora di svago. Ho odiato l’imbelle, impotente e arrogante polizia belga che, incapace di prevedere il pericolo costituito dai ‘Reds’, s’è disfatta nel caos ai primi incidenti, ha voltato vilmente le spalle agli ‘animals’ scatenati, è risultata pressocchè nulla nell’opera di soccorso, ha esibito una grinta da operetta nel tentativo di riprendere il presidio del campo, ha dovuto chiedere infine ai calciatori della Juve e del Liverpool l’agghiacciante esibizione dell’Heysel per evitare una più grande carneficina. Voglio dire a chi non c’era e tuttavia ha straparlato, ha sentenziato, ha criticato sciorinando accenti demagogici: tacete, voi che non c’eravate, voi che non avete vissuto quelle ore di paura, voi che non potevate capire quale rabbia omicida stesse montando fra le migliaia di italiani confinati nella curva juventina, gente che avrebbe certo spazzato via dall’Heysel i ‘Reds’ vigliacchi, aggiungendo strage a stragè.
‘E invece, grazie a Boniek e a Grobbelaar, a Cabrini e a Wark, a tutti quei ragazzi che sono scesi sul tappeto sconsacrato dell’Heysel, la paura s’è spenta, altre ansie – magari incoscienti – si sono accese, e nuovi sorrisi – ancorchè folli – sono tornati sui volti della gente. In Italia – scrissi ancora – piuttosto che rivolgersi ai veri colpevoli della strage pretendendo giustizia per i poveri morti di una triste giornata di maggio, si è preferito infierire sul trofeo assegnato alla Juve e ritirato da Boniperti. Resti pure, quella Coppa dei Campioni, tra i trofei della Juventus: certo non le darà nuova gloria o felicità, ma solo una Coppa così, in attesa di un’altra più vera che potrà essere dedicata al piccolo Andrea Casula e agli altri trentuno italiani che non sono più tornati dallo stadio di Bruxelles. Oggi piangiamo per loro, ma non rinneghiamo la passione per il calcio e sogniamo il giorno in cui potremo tornare a sorriderè.