
(Articolo sui salari in Europa da VicenzaPiù Viva n. 298, sul web per gli abbonati).
Negli ultimi dieci anni l’Europa ha visto un’inarrestabile corsa verso l’innalzamento dei salari minimi legali: da maggio 2015, quando pochi Stati li avevano introdotti, al 2025 ben 22 dei 27 Paesi membri dell’Ue si sono dotati di un meccanismo statale per garantire un reddito minimo mensile. La fotografia aggiornata a gennaio 2025 racconta, però, un continente sempre più diviso in fasce: da un lato Lussemburgo, Irlanda, Paesi Bassi, Germania, Belgio e Francia, con soglie superiori a 1.800 € (con una media di 2.200 €); dall’altro un gruppo di nazioni dell’Est e del Sud – Bulgaria, Romania, Ungheria, Lettonia, Croazia, Grecia, Malta,
Estonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Portogallo e Cipro – in cui il salario minimo oscilla tra i 550 € e i 1.300 € mensili (e una media di 1.050 €).
E chi il salario minimo non ce l’ha?
C’è poi un’altra zona ancora, quella dei Paesi che il salario minimo non l’hanno inserito, ovvero l’Italia, la Danimarca, la Svezia, la Finlandia e l’Austria. In quest’ultima lista fa
per lo meno sorridere la presenza del nostro Paese, poco abituato a condividere le classifiche con mostri dello stato sociale come gli stati scandinavi. Ad ogni modo, in questi Paesi è stata scelta la strada della contrattazione e sono quindi i sindacati che trattano a livello settoriale e territoriale. Va sottolineato che, se in Scandinavia il modello funziona da decenni, grazie a sindacati forti e ad un’alta densità di tutele sociali, in Italia, invece, la copertura reale dei contratti nazionali spesso non riesce a garantire un reddito adeguato, lasciando i lavoratori in situazioni che possono essere anche tragiche. Per dare un’idea del problema, nei Paesi nordici la copertura contrattuale supera il 90% dei lavoratori, mentre in Italia resta ferma poco sopra il 60%, con punte più basse nei servizi, nel turismo e nell’agricoltura.

Insomma, in Scandinavia il salario minimo non è previsto per legge semplicemente perché non c’è bisogno di un intervento governativo: le tutele contrattuali sono sufficienti e il sistema di welfare capillare permette una vita dignitosa anche ai lavoratori meno qualificati. Anche in Austria, volendo uscire dalla retorica scandinava, la situazione è molto più rosea che in Italia, ed infatti, con una copertura contrattuale che supera l’80 %, il Paese registra un alto livello di benessere economico in area Ue.
Ma come si fissano i minimi nei vari Paesi?
Le modalità di determinazione variano sensibilmente da stato a stato e si dividono in 4 diverse tipologie. La prima, è la formula automatica, adottata da Francia e Lussemburgo, che calcolano il salario minimo grazie all’utilizzo di formule basate sull’inflazione e sulla variazione media degli stipendi. La Francia aggiorna il salario minimo ogni gennaio, mentre il Lussemburgo in base all’Indice Armonizzato dei Prezzi al Consumo. La seconda modalità è quella basata sugli indici nazionali, utilizzata sia dal Belgio, che tramite un «pivot index» sanitario adegua i minimi ogni due anni, sia dai Paesi Bassi, che rivedono il valore ogni 1° gennaio e 1° luglio in funzione dell’inflazione complessiva. La terza tipologia è quella adottata dalla maggior parte dei Paesi: in Germania, Spagna, Grecia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Bulgaria è il governo a fissare il salario minimo, con
decreto o legge annuale, a seguito di una consultazione – che può essere più o meno vincolante in base al paese – con i sindacati e le associazioni datoriali. In questa lista, Ungheria e Repubblica Ceca rappresentano un caso particolare, perché prevedono un doppio livello di salario minimo, in base al livello di qualificazione professionale. Infatti, l’Ungheria distingue tra minimálbér (base) e garantált bérminimum (per chi ha qualifiche), mentre in Repubblica Ceca esiste un salario “garantito” più alto per chi ha competenze specifiche.

Divario Est–Ovest sì, ma anche incrementi record
Come è evidente dalla cartina, il divario tra i salari minimi tra est e ovest è ancora significativo, anche se è da evidenziare che negli ultimi dieci anni sono stati proprio i Paesi dell’Est a registrare i ritmi di crescita più sostenuti. Tra il 2015 e il 2025, il salario minimo in Romania è aumentato del 23%, in Croazia del 15%, in Lituania del 12%, mentre in Repubblica Ceca e Polonia del 10%. I numeri in assoluto restano distanti dai livelli occidentali, ma è anche vero che pure il costo della vita in questi Paesi è ancora nettamente inferiore. Questi incrementi sono anche dovuti alla forte inflazione che ha caratterizzato gli ultimi anni e che ha portato quindi molti governi dell’est Europa ad aumenti a doppia cifra per rispondere al calo del potere d’acquisto.
Dall’altra parte, nei Paesi europei a occidente gli incrementi dei salari minimi sono stati più modesti: +2% in Francia, +3,8% in Belgio, +4% circa in Lussemburgo. In Spagna, dopo il salto del 20% degli anni precedenti, il governo ha concordato un aumento di +5,8% per il 2025.
Italia: il caso perdente e un dibattito infinito
L’Italia resta l’unico grande Paese Ue senza salario minimo legale, o almeno uno dei pochi
se non l’unico in cui servirebbe. A conferma, anche le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che in occasione del primo maggio, Festa dei Lavoratori, ha lanciato un monito: “tante famiglie non reggono l’aumento del costo della vita”.
E a fargli eco è arrivata subito la segretaria del Partito democratico Elly Schlein, che ha sostenuto che “il salario minimo, una battaglia che portiamo avanti con le altre opposizioni, deve tornare al centro del dibattito politico”. Viene da chiedersi dove fosse tutta questa volontà del salario minimo quando queste opposizioni erano al governo. Ad ogni modo, in Italia il dibattito politico si trascina da anni: oggi da una parte ci sono le forze di opposizione e i sindacati che sostengono l’urgenza di introdurre una soglia minima nazionale, ritenendola uno strumento indispensabile per contrastare il “lavoro povero”; dall’altra, alcuni imprenditori e i partiti di maggioranza, nonché il Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), mettono in guardia contro il rischio di un appiattimento dei contratti collettivi e di un potenziale aumento della disoccupazione, sottolineando la necessità di preservare la flessibilità del mercato del lavoro.
E l’Ue cosa dice?
Nel 2022 l’Unione europea ha adottato una direttiva per promuovere salari minimi adeguati e condizioni di vita dignitose per tutti i lavoratori. La norma non impone un livello uniforme di salario minimo per tutti i Paesi, ma stabilisce criteri chiari per fissarlo e aggiornarlo regolarmente, almeno ogni due anni. Inoltre, incoraggia la contrattazione collettiva, chiedendo agli Stati con una copertura inferiore all’80% – quindi anche l’Italia – di elaborare un piano d’azione per aumentarla.
La direttiva mira anche a garantire un accesso effettivo alla tutela salariale, attraverso controlli ispettivi e sanzioni verso i datori non conformi. Gli Stati membri devono monitorare e comunicare alla Commissione europea i dati su copertura contrattuale e livelli retributivi. L’obiettivo finale è contrastare la povertà lavorativa e ridurre le disuguaglianze salariali tra Paesi, rispettando le specificità dei singoli sistemi nazionali di regolazione del lavoro. Bella notizia in teoria, peccato che, essendo una direttiva, ogni Stato può decidere come e quando applicarla, lasciando ampio margine di autonomia.
Quali sfide per il futuro in un Paese sempre più povero?
Le opzioni aperte sono due: la prima è semplicemente introdurre un salario minimo legale,
calcolato con formule trasparenti, corredato da un meccanismo di indicizzazione annuale e legato al costo della vita e all’inflazione, come tanti Paesi europei hanno fatto prima di noi. Un salario minimo ben calibrato non è un freno, ma può diventare un motore di equità e crescita, come dimostrano Germania, Portogallo e Slovenia, che hanno introdotto o adeguato i minimi senza impatti negativi sull’occupazione. La seconda possibilità è rafforzare la capacità negoziale dei sindacati, incentivando accordi settoriali o territoriali in tutti i comparti – soprattutto quelli meno coperti – e aumentare quindi la capacità contrattuale dei lavoratori. In entrambi i casi, comunque, rimane fondamentale anche combattere il lavoro nero, che terrebbe numerosi lavoratori fuori dalle tutele di queste soluzioni.
L’Italia non può più permettersi di restare a guardare: in un mercato del lavoro sempre più flessibile e globalizzato, il salario minimo resta uno spartiacque certo tra un reddito dignitoso e la povertà salariale.