
(Articolo sul prezzo della pace da VicenzaPiù Viva n. 302, sul web per gli abbonati).
Per ricostruire il Paese devastato dalla guerra voluta da Putin ci vorranno oltre 500 miliardi di dollari. L’Unione europea ha già disegnano i primi strumenti, ma per trovare tutte le risorse servirà coinvolgere anche i privati (con l’incognita degli asset russi “congelati”).
Quando si parla di Ucraina, l’attenzione mediatica è monopolizzata da due aspetti: da un lato la diplomazia, con il protagonismo del presidente statunitense Donald Trump e i suoi tentativi (finora inconcludenti) di spingere verso negoziati risolutivi; dall’altro quello militare, dove a dominare sono le cronache delle offensive, delle forniture di armi occidentali e delle difficoltà di Kyiv nel resistere a un’aggressione che dura ormai da più di tre anni e mezzo.
C’è però un’altra dimensione, meno visibile ma destinata a diventare centrale non appena le armi taceranno: la ricostruzione, materiale e non solo, dell’Ucraina. Non si tratta di un dettaglio accessorio, ma della prospettiva di un’impresa economica titanica, che richiederà risorse e strategie paragonabili – se non superiori – a quelle messe in campo sul fronte bellico. E già oggi, con la guerra ancora in corso, si moltiplicano i calcoli, i piani e le iniziative per capire come affrontarla.

Il conto della ricostruzione
A fine febbraio 2025, governo ucraino, Banca Mondiale, Commissione europea e Nazioni Unite hanno diffuso la stima più aggiornata dei danni e dei fabbisogni: 524 miliardi di dollari in dieci anni, pari a circa 480 miliardi di euro. Una cifra enorme, che fotografa la somma necessaria non solo per “riparare” ciò che è stato distrutto, ma anche per trasformare l’Ucraina in un paese moderno, integrato negli standard europei.
I danni diretti ammontano a 176 miliardi di dollari: il 13% del patrimonio abitativo è stato danneggiato, coinvolgendo oltre 2,5 milioni di famiglie. Ma i bisogni di ricostruzione vanno oltre: a oggi, servirebbero già a circa 230 miliardi (di cui 84 miliardi per le case, 78 per il sistema dei trasporti, 68 per l’energia).
Dietro questi numeri si nasconde una questione di metodo: ricostruire non significa solo rimettere in piedi ciò che c’era, ma ridisegnare reti energetiche più resilienti, infrastrutture in grado di resistere a nuove minacce, città e villaggi (ri)costruiti secondo criteri di efficienza e sostenibilità. In altre parole, non si tratta di restaurare il passato, ma di costruire il futuro europeo dell’Ucraina.
Il canale europeo: lo “Ukraine Facility”
La risposta più organica finora è arrivata dall’Unione europea, che nel marzo 2024 ha varato lo Ukraine Facility, uno strumento finanziario da 50 miliardi di euro valido fino al 2027. Una sorta di “Recovery Fund” su misura per Kyiv, composto da sovvenzioni e prestiti, che ha il compito di assicurare liquidità immediata e, al tempo stesso, guidare la ricostruzione.
Il cuore del meccanismo è lo Ukraine Plan, approvato dal Consiglio dell’UE nel maggio 2024: un documento che definisce priorità, riforme e investimenti e che vincola i pagamenti al raggiungimento di precisi traguardi. Non basta cioè presentare progetti: occorre anche dimostrare progressi in settori chiave come lo stato di diritto, la lotta alla corruzione, la modernizzazione della pubblica amministrazione.
Come per il PNRR italiano, anche questo strumento quindi funziona con il sistema dei “milestone”: una volta verificato il rispetto degli impegni, Bruxelles autorizza nuove tranche di pagamenti. Tra il 2024 e l’inizio del 2025, Kyiv ha già ricevuto quasi 20 miliardi di euro, inclusi 1,9 miliardi di prefinanziamento. È una logica “condizionata”: da un lato garantisce sostegno, dall’altro mantiene alta la pressione riformatrice, in vista dell’adesione all’Unione. Un equilibrio non semplice, ma cruciale per trasformare l’assistenza e la solidarietà in un investimento politico vero e proprio.

La conferenza di Roma a luglio
Il 10 e 11 luglio scorso, infine, Roma ha ospitato la Ukraine Recovery Conference, un appuntamento che ha segnato un passo avanti nella costruzione di strumenti finanziari più sofisticati. In quell’occasione, la Commissione europea ha presentato l’European Flagship Fund for the Reconstruction, un fondo di investimento con capitale iniziale di 220 milioni di euro e l’obiettivo di raggiungere i 500 milioni entro il 2026. Parallelamente, sono stati firmati accordi per circa 2,3 miliardi di euro in garanzie e sovvenzioni, destinati a mobilitare fino a 10 miliardi di euro di investimenti privati.
Il messaggio politico è stato chiaro: la ricostruzione non potrà basarsi solo su soldi pubblici (cioè degli stati), ma dovrà attrarre anche capitali privati. Per farlo, servono garanzie contro il rischio di guerra, strumenti assicurativi e procedure trasparenti. Durante l’incontro di Roma si è provato a dare il via a questo sistema, pur nella consapevolezza (a dire il vero, poco rassicurante) che la fiducia degli investitori dipenderà anche dalla fine delle ostilità.
Il ruolo dell’Italia
L’Italia ha rivendicato un ruolo di primo piano, sotto il profilo sia politico sia economico. Già nel 2022 il Governo aveva donato 110 milioni di euro e stanziato una linea di credito per altri 200 milioni. Negli anni successivi, il nostro esecutivo ha contribuito ai canali europei e multilaterali, aggiungendo interventi mirati come i 10 milioni versati alla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo per sostenere il settore energetico.
Nel 2025, accanto al vertice romano, il Governo italiano ha lanciato la Misura “Ucraina” da 300 milioni di euro attraverso SIMEST (società del gruppo Cassa Depositi e Prestiti), per sostenere le imprese italiane interessate a partecipare alla ricostruzione. La scommessa è che, con i giusti meccanismi di accompagnamento, molte filiere produttive italiane possano giocare un ruolo importante.
A livello politico, l’Italia ha assunto il “patronato” sulla regione di Odessa, coordinando progetti e intese ministeriali su vari fronti. È una scelta che riflette sia ragioni storiche (i legami del porto di Odessa con l’Adriatico), sia ambizioni industriali. In prospettiva, il contributo italiano sarà misurato non solo in termini di fondi, ma anche di capacità di convogliare know-how e imprese in un processo di ricostruzione che si preannuncia lungo e complesso, ma non per questo privo di opportunità.
Chi paga il conto?
La domanda cruciale è semplice: chi pagherà il conto da oltre 500 miliardi di dollari? La risposta è composita. Una parte arriverà dal bilancio ucraino e dai partner pubblici internazionali (UE, G7, istituzioni finanziarie globali). Ma da sola non basterà. Per questo si punta a mobilitare il capitale privato, creando condizioni di investimento più sicure.
Un nodo delicatissimo riguarda i beni russi congelati: circa 300 miliardi di dollari di asset detenuti all’estero. C’è chi propone di confiscarli e destinarli direttamente alla ricostruzione; altri, più prudenti, parlano di utilizzare solo i ricavi generati da questi fondi. La questione legale è complessa e il rischio di ritorsioni elevato: per questo, l’ipotesi di una confisca totale è apparsa per molto tempo poco percorribile. Finché, di recente, Ursula von der Leyen ha rilanciato questa proposta, probabilmente anche in seguito al venir meno delle resistenze provenienti da alcuni governi europei (in primis quello tedesco).
In definitiva, il costo della ricostruzione sarà frutto di un mosaico di risorse: denaro pubblico, prestiti agevolati, investimenti privati e – forse – i proventi degli asset russi. Nessuna bacchetta magica, ma un puzzle che richiederà coordinamento e trasparenza.
Ricostruire per una “pace giusta”
Parlare di ricostruzione mentre la guerra è ancora in corso può sembrare prematuro. In realtà, è indispensabile. Perché la fine del conflitto non coinciderà con la fine delle attività militari: allora inizierà un’altra battaglia, quella per ridare vita a un Paese devastato.
Una “pace giusta” non significa soltanto sicurezza militare, ma anche la possibilità per milioni di ucraini di tornare ad avere case, scuole, ospedali e strade funzionanti. Significa integrare Kyiv nello spazio europeo, con istituzioni solide e infrastrutture moderne. E significa anche – nelle intenzioni dei promotori – dare un segnale chiaro a Mosca: le distruzioni inflitte non lasceranno un Paese piegato, ma uno Stato più forte e radicato nell’Unione.
Il percorso sarà lungo e costoso. Ma sarà anche un banco di prova della capacità europea e occidentale di difendere non solo un confine geografico, ma un’idea di civiltà basata su diritti, libertà e sviluppo condiviso.






































