
Che ci piaccia o no, viviamo in un mondo dove anche il frigorifero potrebbe mandarci una notifica. La tecnologia non bussa più alla porta: entra, si accomoda e spesso prende anche il telecomando. In Italia, però, la rivoluzione digitale procede come certi treni regionali: a volte in orario, altre volte con lunghe soste e qualche deviazione imprevista.
Oggi oltre il 92% della popolazione italiana ha accesso a internet. Un dato impressionante, almeno sulla carta. Perché avere accesso non significa saperlo usare davvero. E qui iniziano le sfumature: ci sono i nativi digitali che parlano in emoji, e poi ci sono quelli che ancora chiedono “ma il Wi-Fi è finito?”.
La pandemia, in tutto questo, ha fatto da catalizzatore. Improvvisamente, il digitale non era più un’opzione, ma l’unico modo per fare la spesa, vedere i parenti o consultare il medico. In tanti hanno dovuto superare paure, diffidenze e qualche tutorial su YouTube. È stata una sorta di corso accelerato nazionale, che ha ridotto almeno in parte quel famoso divario digitale che ci portavamo dietro da anni.
Il problema? Quel divario è ancora lì, solo che si è fatto più sottile e sfuggente. Si manifesta nelle competenze, non solo nella connessione. Mentre i più giovani si muovono con disinvoltura tra app, piattaforme e trend, una buona parte degli over 65 ancora combatte con l’uso della PEC o della posta elettronica. E se chiedi loro di accedere a un servizio pubblico online, partono gli sguardi smarriti.
Eppure, qualcosa si muove. Il Sistema Pubblico di Identità Digitale ha superato i 32 milioni di utenti. L’app IO comincia ad affacciarsi nella quotidianità di molti cittadini. Non tutto è semplice o intuitivo, ma la direzione è tracciata. A patto che venga accompagnata da politiche di alfabetizzazione digitale reali, continue e soprattutto inclusive.
Nel frattempo, la vita digitale degli italiani si fa sempre più intensa: trascorriamo in media oltre sei ore al giorno online. Un tempo ormai paragonabile a quello passato a dormire (o a cercare di farlo). E buona parte di queste ore è dedicata ai social media, il nostro bar virtuale sempre aperto. Facebook domina tra gli utenti più maturi, mentre Instagram, TikTok e Twitch sono il regno incontrastato delle nuove generazioni. Il risultato? Una sorta di zapping perpetuo tra contenuti, notifiche e stimoli continui.
In questo contesto iperconnesso, l’intrattenimento digitale ha conosciuto un’espansione notevole. Le piattaforme di streaming hanno rivoluzionato il modo in cui fruiamo film e serie. Netflix, Prime Video e Disney+ sono ormai nomi di famiglia, presenti in quasi ogni salotto, spesso con più profili che abitanti.
Parallelamente, il mondo del gaming ha conquistato fasce sempre più ampie della popolazione. Non si tratta più di una nicchia per adolescenti con joystick: oggi si gioca da smartphone, tablet, console e PC, in pausa pranzo come nel letto prima di dormire. E anche le forme di gioco tradizionali si sono adattate al digitale. Un esempio? L’interesse crescente per offerte come casinò 70 giri gratis senza deposito, che permettono di sperimentare il gioco online senza rischi immediati. Un approccio prudente ma curioso, tipico di chi vuole divertirsi con un occhio al portafoglio.
Ma la vera rivoluzione silenziosa è avvenuta nell’e-commerce. Se un tempo bastava dire “compra online” per scatenare dubbi, oggi oltre il 74% degli italiani fa acquisti in rete con regolarità. Amazon resta il colosso indiscusso, ma anche negozi locali e botteghe digitali stanno trovando il loro spazio. E cresce il mercato dell’usato digitale: piattaforme come Vinted e Subito sono diventate vere e proprie piazze virtuali dove vendere, comprare e… curiosare.
Anche il modo in cui comunichiamo ha subito una metamorfosi. WhatsApp è diventato lo standard nazionale, più diffuso della pizza margherita, con una penetrazione che supera il 90% tra gli utenti smartphone. Telegram ha conquistato terreno, soprattutto come strumento per seguire canali informativi o alternativi. E le videochiamate, da strumento emergenziale durante i lockdown, sono ormai parte della routine per molti, anche se con frequenza più contenuta.
E poi c’è lui, lo smart working: il cambiamento forse più tangibile lasciato dalla pandemia. Se prima del 2020 era una possibilità riservata a pochi eletti, oggi circa il 30% dei lavoratori italiani alterna casa e ufficio, modificando non solo gli spazi ma anche il concetto stesso di lavoro. Connessioni veloci, sedie ergonomiche e auricolari con microfono sono diventati gli accessori della nuova normalità.
Nonostante tutto questo fermento, l’Italia digitale resta un cantiere aperto. Siamo lontani dagli standard dei Paesi più avanzati in termini di digitalizzazione dei servizi pubblici, efficienza delle infrastrutture e accessibilità universale. Ma i passi avanti ci sono stati, e alcuni sono notevoli.
Quello che ancora manca è una cultura digitale diffusa, critica e consapevole. Perché non basta essere connessi: bisogna anche saper distinguere una truffa da una mail autentica, un contenuto informativo da uno acchiappaclick, un’opportunità da un rischio. E questo richiede formazione, educazione e soprattutto tempo.
Il futuro digitale dell’Italia non sarà scritto da un algoritmo, ma dalle scelte collettive che sapremo fare. Inclusione, attenzione alle fragilità, e investimenti intelligenti sono le chiavi per far sì che il progresso tecnologico non diventi l’ennesima occasione mancata. Perché una società digitale ha senso solo se è per tutti. Anche per chi, ancora oggi, preferisce spegnere il Wi-Fi per “farlo ripartire”.