La memoria del pesce rosso: un impazzimento generale ed estremamente pericoloso sulla questione vaccini

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La memoria del pesce rosso e la questione vaccini
La memoria del pesce rosso e la questione vaccini

In questi giorni stiamo assistendo a qualcosa di estremamente pericoloso sulla questione vaccini. Mi riferisco a un “impazzimento” generale che interessa una parte della popolazione e che, a mio avviso, denota una crescente pulsione anti-scienza e anti-progresso che ci deve preoccupare.

Mi viene in mente un libro di Roberto Vacca, “Il medioevo prossimo venturo”, che, già dal titolo, evidenzia questa spinta reazionaria e retrograda alla quale stiamo assistendo.

Probabilmente la marea è iniziata da tantissimo tempo, da quando si inneggiava alla “ignoranza” come qualità, da quando si è cominciato a mettere in dubbio l’utilità di scoperte e innovazione, spesso individuandole come cose che, ineludibilmente, andavano a ingrossare la ricchezza dei capitalisti, relegando chi lavora a diventare, sempre più, parte di un meccanismo demoniaco contro il quale era impossibile ribellarsi.

La fine della storia, si diceva, e per molti questo era vero. Ci si è adeguati, si sono prese per buone teorie che spesso e volentieri erano veicolate dagli avversari, attraverso canali mediatici in mano a loro. Ha trionfato la stupidità, il “non pensiero”, rispetto all’idea di progresso, al fatto che il futuro potesse essere progettato, costruito e governato dai popoli e non lasciato in mano al capitale. Da qui il passo a una memoria labile, oscurata da un’informazione prona alla volontà di chi comanda, è molto breve, quasi ovvio e naturale. Ci si dimentica di cose storiche e non solo.

Oggi la “questione vaccini”, a mio avviso, si inquadra perfettamente in questa situazione “oscurantista” che stiamo vivendo. Si contesta la funzione dei vaccini per quanto si è letto su internet. Il parere e le spiegazioni di chi è più preparato di noi, di chi ha studiato e studia la materia, di chi l’ha applicata, di chi ha competenze per noi irraggiungibili, non valgono. Ci si basa, sostanzialmente, su qualcosa scritto da qualcuno da qualche parte e lo si prende per oro colato. Basta che sia contro la scienza. E si fomenta la paura del “nuovo”.

All’inizio della pandemia si auspicava (e lo facevano tutti, indistintamente) che si arrivasse in tempi brevi a un vaccino che limitasse la virulenza del covid-19. Oggi, che il vaccino esiste (e non si venga a dire che non è stato sperimentato, per carità), se ne contesta la validità, lo si considera una specie di strumento demoniaco che serve a controllare gli individui. E questo è un altro punto da prendere in considerazione. L’individuo è diventato molto più importante della collettività. La libertà individuale viene esaltata e ritenuta intoccabile a scapito di quella collettiva. Il diritto individuale deve cancellare qualsiasi dovere personale e ogni diritto collettivo. Una concezione, questa, decisamente conservatrice e reazionaria che, non a caso, viene seguita dai governi schierati a destra (quando non palesemente fascisti) come quelli del Brasile di Bolsonaro, degli USA, del Regno Unito di Johnson ecc.

In altre parti del mondo, da Cuba al Venezuela, dal Vietnam alla Cina, invece, questa visione retrograda e individualista viene rifiutata. Non è neppure presa in considerazione. Il problema non è se il vaccino sia “strumento demoniaco” del capitale in quanto vaccino. Il problema è che i brevetti sono in mano di poche multinazionali del farmaco. Il problema è che ci si arricchisce sulla pelle dei popoli, che qualcuno può decidere chi salvare e chi resta senza protezione. Il problema non è il vaccino, dunque, ma il suo utilizzo.

Che non venga diffuso in tutti i continenti, che l’intera Africa sia “fuori dal giro” (è solo un esempio) non è un problema per i No-vax più o meno nostrani. Per loro è l’individuo quello che conta. Non a caso, se non ce lo siamo dimenticato, la destra del nostro paese blaterava di chiudere le frontiere agli immigrati, portatori del virus (quando, casomai, eravamo noi a “esportarlo”).

Oggi, in un delirio di oscurantismo, al grido di “libertà, libertà” si pretende, ed è bene ribadirlo, una libertà individuale che permetta ad ognuno di agire come gli pare. Si rifiuta la vaccinazione gratuita ma si pretende la stessa considerazione di chi si è vaccinato. Si urla (ma solo in questo caso e non in altri ben più devastanti, come quello della mancanza di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro) che ci rubano il diritto di fare quello che si vuole ma non si parla del dovere di salvaguardare la salute di chi ci sta intorno. Si usa un linguaggio violento e la forza.

Da più parti si sostiene che sia l’esasperazione delle persone obbligate al vaccino a muovere la protesta di quell’insieme di individui che possiamo definire folla e si ritiene che bisogna cavalcare questa protesta. Si ragiona poco e male. Così si assumono atteggiamenti e parole d’ordine sempre più chiaramente reazionarie e fasciste (sì, perché dire che l’obbligo vaccinale o l’esibizione dell’attestazione di avvenuto vaccino è uguale all’olocausto non è la verità, è confusione e paradossalmente è fascismo).

Alla fine si arriva al dunque e si passa all’azione. E cosa succede? Un manipolo di fascisti dichiarati e riconosciuti devasta la sede nazionale del maggiore sindacato italiano, la CGIL. E, anche di fronte a questo, partono le giustificazioni, le ambiguità anche da parte di frange della sinistra più massimalista. La colpa, fanno capire, è di quel sindacato che non ha seguito i dettami della folla. Ora, e da tempo, io sono molto critico su tante scelte della dirigenza dei sindacati confederali, sulla loro azione concertativa che, spesso, si adegua alle richieste della controparte, ma come non vedere che l’attacco contro la CGIL fa parte di un’offensiva violenta contro il movimento sindacale nella sua totalità. Un attacco che rientra nella logica reazionaria e fascista di ridurre le lavoratrici e i lavoratori e le loro organizzazioni, quali esse siano, a non contare nulla. È, come cercavo di dire prima, il tentativo finale di rendere chi lavora un individuo isolato facente parte di una folla composta da altri individui isolati. Il tentativo definitivo di smantellare quel che resta della coscienza di classe e che si sta faticosamente ricostruendo nelle lotte di questi ultimi mesi in difesa del lavoro, dalla GKN alla Timken, dalla Gianetti ruote alla Whirpool, all’ex ILVA, all’Alitalia, alla Bekaert, all’Embraco, alla Texprint, alla FedEx …

Questo è quello che dobbiamo tenere presente. È in atto un attacco violento utile a un padronato che vuol far ricadere su chi lavora tutto il peso della crisi e che utilizza qualsiasi mezzo per sgretolare quello che resta del movimento dei lavoratori. Come non capire che, di questo attacco, fanno parte anche le brutali aggressioni che sono avvenute in questi mesi a Prato contro lavoratori tessili che lottano contro lo sfruttamento a cui sono assoggettati.

Chi non ha la “memoria del pesce rosso”, dovrebbe ricordare cosa successe cento anni fa.

Chi era l’oggetto delle violenze delle squadracce nere, se non sindacati, case del popolo, organizzazioni ed esponenti comunisti, socialisti, democratici? E quelle aggressioni non furono, forse, azioni che favorirono l’avvento del regime fascista?

E si dovrebbe anche ricordare quello che accadde, nella prima metà degli anni ’70 del secolo scorso, in un paese a noi lontano solo geograficamente, il Cile di Allende. Bisognerebbe ricordare come il malcontento fu alimentato ad arte sfruttando le difficoltà di una crisi economica ingigantita dall’ostilità statunitense e come, sullo sciopero dei camionisti e il conseguente blocco dei trasporti (prima nell’ottobre del 1972 e poi nell’agosto del 1973), si innescò (e si “giustificò”) il colpo di stato di Pinochet.

Una tattica analoga oggi? Sicuramente il governo di Allende era cosa ben diversa da quello che è oggi il governo Draghi (un governo schierato dalla parte dei padroni e della finanza), ma alcune similitudini nelle proteste e nella violenza in atto oggi nel nostro paese, l’odio contro le organizzazioni sociali e politiche dei lavoratori, il complottismo oscurantista esasperato, l’esaltazione dell’ignoranza contrapposta alla scienza, dovrebbero indurci a ragionare su cosa stia succedendo e su cosa significhi, oggi, attaccare e devastare la sede nazionale del maggiore sindacato italiano.

Qui non è in ballo la caduta o meno di un governo come l’attuale che ritengo ostile a chi lavora. Oggi è in discussione se lavoratrici e lavoratori possano avere ancora rappresentanza e forza, se possano oggi e se potranno domani ancora lottare contro lo sfruttamento o se saranno ridotti a individui che compongono una “folla” amorfa che si adegua a quella rassegnazione propria del “realismo capitalista”.

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Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.