
Di recente, il direttore della Gazzetta Italo Brasiliana online e presidente di ASIB (Associazione Stampa Italiana in Brasile), Giuseppe Arnò, ha sollevato un dibattito tanto provocatorio quanto affascinante: sulla scia di un’analoga proposta delle Marina Militare dotare l’Italia di una portaerei nucleare. In un articolo pubblicato sulla testata che dirige (“Una portaerei nucleare per l’Italia? Meglio una Ferrari dei mari che una Panda galleggiante”), Arnò ha spiegato le ragioni di una proposta che, tra ironia e visione strategica, vuole portare l’Italia a interrogarsi sul proprio ruolo nello scacchiere geopolitico e militare internazionale. Abbiamo voluto parlarne direttamente con lui, approfittando anche dell’amicizia ed della collaborazione in ASIB, in un confronto che parte da una provocazione per approdare a riflessioni molto serie.
Giovanni Coviello: Direttore Arnò, nel suo recente articolo ha parlato della possibilità – o forse della necessità – per l’Italia di dotarsi di una portaerei nucleare. Una proposta che ha fatto discutere. Com’è nata questa riflessione?
Giuseppe Arnò: È nata da un sentimento di disagio e disincanto verso la visione strategica italiana, spesso timida e subalterna. Quando vedo che nel mondo si riposizionano equilibri e poteri, mi chiedo: e l’Italia? Continuerà a navigare con una Panda galleggiante o penserà finalmente a costruirsi una Ferrari dei mari, capace di contare davvero?
G.C.: La metafora è efficace. Ma non crede che parlare di una portaerei nucleare possa sembrare eccessivo, persino irrealistico, agli occhi di molti italiani?
G.A.: Lo è, se la si prende alla lettera. Ma io parlo per simboli. La portaerei nucleare rappresenta un’Italia che osa, che punta all’eccellenza, che non ha paura di assumersi responsabilità nel mondo. Meglio essere criticati per una visione troppo ambiziosa che per il consueto attendismo da retrovia.
G.C.: Ma c’è anche un aspetto tecnico e geopolitico, oltre che simbolico. Crede davvero che l’Italia debba dotarsi di un simile strumento militare?
G.A.: L’Italia è già parte integrante di scenari strategici nel Mediterraneo e oltre. Una portaerei nucleare – o più realisticamente una flotta tecnologicamente avanzata – servirebbe a garantire autonomia, prestigio e deterrenza. È una questione di visione a lungo termine, non di guerra. Anche perché, come scrivo nell’articolo, chi non investe in difesa spesso finisce per pagarla due volte: una come vittima e l’altra come gregario.
G.C.: Alcuni hanno letto il suo articolo anche come una critica alle scelte attuali del governo e al modo in cui si gestisce la politica estera e di difesa…
G.A.: Più che una critica, è un’esortazione. Non mi interessa se al governo c’è la destra, la sinistra o un centro camuffato. Mi interessa che l’Italia smetta di vivacchiare e torni a progettare. Abbiamo un know-how industriale e navale che molti ci invidiano. Perché non usarlo asncher per sviluppare il settore grazie alle nostre aziende? Perché non pensare in grande?
G.C.: Lei è presidente dell’Associazione Stampa Italiana in Brasile. Vede differenze nel modo in cui italiani all’estero – soprattutto in un paese dinamico come il Brasile – percepiscono certe proposte?
G.A.: Assolutamente. In Brasile si ammira chi osa, chi sogna in grande, chi non si arrende all’inevitabile. Gli italiani all’estero sono spesso più disillusi ma anche più reattivi. Hanno lasciato un’Italia che si compiaceva dei suoi limiti. Ma vogliono rivederla grande. Anche solo pensare a una portaerei, da questo punto di vista, è un esercizio di risveglio collettivo.
G.C.: Se dovesse riassumere il cuore del suo messaggio in una frase?
G.A.: L’Italia non deve solo galleggiare nel Mediterraneo: deve navigare a testa alta, con visione e coraggio. E una portaerei nucleare, vera non solo simbolica, è esattamente questo.
Un’idea, quella di Giuseppe Arnò, che provoca e stimola, forse irrealizzabile nell’immediato, ma utile per tornare a pensare il futuro con audacia e responsabilità. E per ricordarci che, anche nel mare delle incertezze globali, è meglio una rotta ambiziosa che la deriva dell’abitudine.