
Morire a 37 anni, schiacciato da una lastra di marmo, con in tasca un contratto di lavoro di appena sei giorni. Sei giorni, avete capito bene, meno di una settimana. Succede a Marina di Carrara, nelle cave delle Alpi Apuane che producevano la materia prima dei capolavori di Michelangelo. Quella era l’Italia del Rinascimento, oggi siamo il settimo Paese industrializzato del mondo, il secondo in Europa. Ma si continua a morire sul lavoro, quanto e più di prima. L’11 luglio 2018, un giorno come un altro: mentre nel deposito di Marina di Carrara si spezzava la vita di Luca, poche centinaia di chilometri più a nord, a Campodarsego vicino Padova, un operaio perdeva la sua precipitando da un macchinario che stava imballando per conto di una ditta.
Era al primo giorno di lavoro. Un giorno come un altro, appunto.
Perché  ormai c’è solo la contabilità di questa Spoon River infinita:  dall’inizio dell’anno 384 morti sul lavoro, il 20,5% in più rispetto al  30 giugno del 2017. Soltanto nel mese scorso, secondo l’Osservatorio  indipendente di Bologna i “caduti” sono stati 69.
Quasi sempre se ne  vanno vite precarie. Operai che non hanno fatto in tempo a conoscere la  dignità del lavoro. Perché è evidente che la sicurezza è inversamente  proporzionale alle tutele, ai diritti, alla formazione. Nell’era  dell’industria 4.0 li abbiamo ribattezzati “fast jobs”, come se un nome  ammiccante mimetizzasse meglio la desolazione di contratti a zero  tutele. Ne sanno qualcosa i fattorini diventati riders senza però  guadagnare un diritto in più. Quattro milioni di italiani hanno  contratti inferiori a tre mesi, un milione in più rispetto a quattro  anni prima. Un totale di 12 miliardi di retribuzioni, cioè 3mila euro di  media all’anno per ciascuno.
Lavori a tempo, intermittenti, a  chiamata, somministrazioni, collaborazioni, voucher (finché ci sono  stati. E ora potrebbero tornare)… la declinazione del precariato in  Italia. Gli effetti del decreto Poletti del 2014 e poi del Jobs Act del  2015. Ma anche del proliferare degli appalti e del subappalto, delle  false cooperative, filiere nelle quali sbiadisce il peso delle  responsabilità. E poi la liberalizzazione del lavoro festivo che ha  significato sacrificare spazio e tempo nella vita di milioni di addetti  dei centri commerciali, sull’altare di quei moderni templi del  consumismo.
Definizioni, nomi, numeri per catalogare e normalizzare  vite in carne ed ossa. Così anche la “dignità” del decreto Di Maio  rischia di rappresentare solo un titolo. Perché se è innegabile  un’inversione di tendenza rispetto ad anni nei quali l’attenzione della  politica ha guardato più alle ragioni del capitale che a quelle del  lavoro, è altrettanto evidente che siamo ancora ai proclami da campagna  elettorale.
L’essenza della precarietà è nel ricatto, più o meno  palese, al quale deve sottostare il lavoratore che sa di non poter dire  troppi no a chi ha la facoltà (e il potere) di rinnovargli il contratto.  Ridurre da 36 a 24 mesi l’arco di durata massimo dei lavori a tempo non  cancella l’aut aut, perché ci sarà sempre un disoccupato, angosciato,  pronto a subentrare.
di Marco Patucchi, da La Repubblica
            
		


































