
Ottant’anni fa, il 6 agosto 1945, veniva sganciata su Hiroshima la prima bomba atomica della storia. In pochi secondi, una città intera fu cancellata dalla faccia della terra. Decine di migliaia di civili – donne, bambini, anziani – morirono all’istante, altri nei giorni e mesi successivi. Si trattò, secondo il linguaggio bellico, di “una necessità strategica”. Così ci hanno insegnato, così ci si è convinti per anni.
Eppure oggi – mentre ci si commuove, ci si scandalizza, si scrive e si posta, giustamente, di fronte alle immagini delle guerre contemporanee – sorge una domanda amara: la morte dei civili ha forse un peso morale diverso, a seconda del tempo, del luogo o della bandiera?
Chi guarda Gaza, devastata da mesi di bombardamenti, con bambini straziati sotto le macerie e intere famiglie cancellate, si chiede come si possa ancora accettare, giustificare o anche solo ridurre a rumore di fondo l’orrore quotidiano che colpisce innocenti.
Chi osserva le città ucraine rase al suolo, i villaggi sudanesi ridotti a cenere, le repressioni nel Myanmar, le fughe di massa nel Sahel o nello Yemen, non può non sentire lo stesso gelo allo stomaco, la stessa sensazione di impotenza mista a rabbia.
E allora torna Hiroshima. Perché lì – come in tante guerre del passato – la morte dei civili fu non solo accettata, ma anche razionalizzata. La si raccontò come “inevitabile”, anzi “salvifica”. Ma salvifica per chi? Per chi la guerra la faceva, non per chi la subiva.
Oggi, la differenza forse è solo nella possibilità di vedere. I social, i media, i video girati dai testimoni ci rendono partecipi in tempo reale. Il dolore non è più confinato nei bollettini dei generali o nei cimiteri nascosti. È ovunque, e ci costringe a guardarci dentro.
Eppure, anche oggi, le reazioni sono selettive. Alcuni civili sembrano contare più di altri. Alcune morti generano commozione internazionale, altre solo qualche riga distratta. Si piange per Kyiv, meno per Khartoum. Si protesta per Gaza, si tace di fronte a quello che avviene, di altrettanto atroce, a Djibo e Kidal in Burkina Faso.
È un doppio standard morale che ci avvelena l’anima.
E forse la lezione di Hiroshima – se lezione ci può essere – sta proprio qui: il dolore umano non ha latitudine, non ha colore politico, non ha giustificazione geopolitica. Uccidere civili non è mai un danno collaterale. È sempre una sconfitta dell’umanità.
Oggi come allora. Da Gaza a Hiroshima, da Bucha a Nagasaki, da Darfur a Fallujah. La pietà non può essere condizionata dall’interesse, la giustizia non può essere modellata sull’alleanza del momento.
La speranza – sempre più fragile, sempre più esile – è che la memoria, invece di spegnersi, ci insegni finalmente a non dimenticare nessuno. Nessun volto, nessun nome, nessun bambino.
Oggi fanno solo parte di una tragica e ripetitiva cronaca.