Omelia nel giorno di Natale di mons. Giuliano Brugnotto, vescovo di Vicenza

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Natale 2025, l'omelia del vescovo di Vicenza, mons. Giuliano Brugnotto
Natale 2025, l'omelia del vescovo di Vicenza, mons. Giuliano Brugnotto

Cattedrale di Vicenza, 25 dicembre 2025. Omelia nel giorno di Natale di mons. Giuliano Brugnotto, vescovo di Vicenza. Letture: Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

Fratelli e sorelle,

oggi la Chiesa ci fa celebrare il Natale non solo come ricordo commovente di una nascita del passato, ma come annuncio per l’oggi: un evangelo – buona notizia – che cambia la misura della vita. E la domanda è inevitabile, quasi ruvida nella sua concretezza: chi è questo Bambino nato a Betlemme, lontano da casa, deposto non in una culla ma in un ricovero per animali? Le letture di questa Messa del giorno di Natale ci danno una risposta sorprendente.

Natale 2025 nella cattedrale di Vicenza
Natale 2025 nella cattedrale di Vicenza

“Come sono belli i piedi…”: il Natale come annuncio

Isaia ci mette davanti agli occhi una scena luminosa: un messaggero corre sui monti e grida: “Ecco il tuo Dio!” (Is 52,7). Non dice semplicemente: “Ecco un’idea nuova”, “Ecco una consolazione”, “Ecco una speranza”. Dice: Dio viene. Dio regna. Dio interviene.

E il Salmo risponde: “Tutti i confini della terra hanno veduto la salvezza del nostro Dio” (Sal 97). Natale non è una piccola festa privata, come se riguardasse soltanto i credenti più sensibili o le famiglie più raccolte. È un fatto che riguarda l’umano: perché, se Dio entra nella storia, allora la storia non è più in preda a se stessa, un tunnel che porta al nulla.

Il vescovo di Vicenza in cattedrale il 25 dicembre 2025
Il vescovo di Vicenza in cattedrale il 25 dicembre 2025

“Dio… ha parlato a noi per mezzo del Figlio”

La Lettera agli Ebrei lo dice con una frase che pesa come pietra preziosa: “Dio… in questi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1-2). Cioè: Dio non si limita a mandare un messaggio; manda se stesso. Non consegna una teoria, consegna una presenza. Non propone dei comandamenti, offre un volto.

E qui si manifesta il paradosso di Betlemme: quel Bambino non è soltanto segno di tenerezza; è la maniera di Dio di prendere parola dentro la nostra carne. Un Dio che non rimane lontano, non parla da sopra le nuvole, non si protegge con la distanza. Si espone. E l’esposizione di Dio comincia in un luogo dove nessuno lo cercherebbe: un riparo di fortuna, come i portici della nostra città o quelli che salgono a Monte Berico dove c’è sempre qualcuno che trova riparo per la notte.

“Il Verbo si fece carne”: chi è il Bambino?

E arriviamo al Vangelo di Giovanni, che oggi non racconta di pastori e stelle, ma spalanca l’eternità: “In principio era il Verbo… e il Verbo era Dio… e il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,1.14). Ecco dunque chi è quel Bambino: è la Parola di Dio discesa sulla terra. È Dio stesso presente nell’uomo Gesù. Giovanni non ci lascia scappatoie: non è un uomo soltanto “ispirato”, non è una creatura “vicina a Dio”, non è un simbolo poetico. È il mistero inaudito di un Dio che entra nel mondo non con lo splendore che abbaglia, ma con una luce che illumina senza ferire gli occhi.

Se Gesù fosse solo Dio “travestito”, l’umano resterebbe intatto nella sua solitudine; se fosse solo un uomo esemplare, resterebbe inappagato il nostro desiderio di vita. Qui le due realtà sono inseparabili: Dio e uomo, in una sola persona, perché la distanza sia colmata non a parole, ma nella vita.

Perché dovrebbe interessarci un Dio che si fa uomo?

E adesso la domanda più concreta: e a noi, che cosa importa? Perché dovrebbe interessarci un Dio che si fa uomo? La vera ragione ce l’ha fatta intuire l’esordio del quarto Vangelo: perché noi tutti siamo stati creati a sua immagine.

Noi spesso viviamo come se la nostra faccia vera fosse quella che mostriamo per difenderci: l’efficienza, il ruolo, la maschera dell’autosufficienza. Ma il Natale dice: la verità dell’uomo è più profonda. E in Gesù Dio ci mostra alcuni tratti del volto umano finalmente illuminato. Ne riconosciamo tre presenti nella Parola ascoltata.

Primo: il volto trepidante del nostro anelito all’eternità. Il Verbo era presso Dio”: in noi c’è una nostalgia e un desiderio di vita che niente è capace di colmare. Non è un difetto da correggere, è una traccia potente della nostra origine. Se Dio si fa carne, allora il desiderio di infinito non è un’illusione da allontanare: è una chiamata. La vita non è fatta per essere consumata, ma per essere compiuta.

Secondo: il volto luminoso della chiamata alla fraternità universale. Il Figlio non viene per creare una cerchia chiusa, ma per generare una famiglia: “A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12). Se abbiamo un Padre, allora l’altro non è un estraneo: è un fratello, è una sorella. E Betlemme, casa senza posto, ci domanda: chi oggi rimane “senza posto” nella mia attenzione, nella mia città, nel mio cuore? Lo ha ricordato questa notte Papa Leone: “Mentre un’economia distorta induce a trattare gli uomini come merce, Dio si fa simile a noi, rivelando l’infinita dignità di ogni persona. Mentre l’uomo vuole diventare Dio per dominare sul prossimo, Dio vuole diventare uomo per liberarci da ogni schiavitù”.

Terzo: il volto sfolgorante delle ferite curate con il perdono.Pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14): grazia, cioè bene che non ho meritato; verità, cioè luce che non mi umilia ma mi salva. Un Dio che si fa uomo non ignora le ferite dell’uomo: le abita. E ci insegna che alcune piaghe non si rimarginano con la vendetta, né con l’oblio, ma con il perdono — che non è cancellare la giustizia, ma liberare la vita dal veleno del rancore.

Allora chi è questo Bambino?

È la Parola di Dio scesa sulla terra. È Dio stesso presente nell’uomo Gesù. È la luce che non schiaccia, ma rialza. È il Dio che non ci spiega da lontano chi siamo: ce lo mostra vivendo con noi.

E oggi, davanti a quella mangiatoia, potremmo fare una preghiera breve e sapienziale, quasi un respiro: Signore Gesù, Parola fatta carne, insegnaci l’eternità che abita i nostri desideri, la fraternità che guarisce le solitudini e le disuguaglianze del mondo, il perdono che fascia le ferite. Perché, guardando Te, impariamo a riconoscere finalmente il nostro vero volto. Amen.

Mons. Giuliano Brugnotto, vescovo di Vicenza