Reclusione in casa per Coronavirus è già una pena per tutti, l’avv. prof. Rodolfo Bettiol: “restino in carcere solo autori di delitti più gravi”

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Coronavirus e carceri affollate
Carceri affollate

Che la funzione del carcere sia quella della rieducazione e del reinserimento del condannato è un dettato costituzionale, che la realtà si scontri con questo principio è noto ma in periodo di rischio di contagio da Coronavirus il problema si ripresenta tanto più che ad essere detenuti non ci sono solo condannati definitivi ma anche chi una eventuale sentenza finale dovesse rimettere in totale libertà. Ecco il perché del parere al riguardo chiesto all’avv. prof. Rodolfo Bettiol.

Avv. prof. Rodolfo Bettiol
Avv. prof. Rodolfo Bettiol

Come è noto con sentenza 8 gennaio 2013 (Torreggiani e altri contro Italia) la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Costituzione del cui rispetto la Corte è giudice, prescrivendo misure idonee alla cessazione della violazione.

La violazione è stata affermata per trattamenti contrari al senso di umanità atteso il fenomeno del soovraffollamento carcerario. In seguito alla sentenza l’Italia ha provveduto con apposita legislazione il c.d. svuota carceri ad introdurre normative che consentissero l’alleggerimento della presenza carceraria.

Il sovraffollamento ha continuato peraltro a rimanifestarsi.

L’introduzione di nuovi reati e l’inasprimento delle pene per reati già previsti ha invero funzionato da contro spinta alla deflazione del numero dei detenuti. Su disponibili effettivamente 47 mila posti i detenuti presenti sono allo stato 57.000. Tale situazione è già di per sé insostenibile ed è in contrasto non solo con l’umanità del trattamento carcerario, ma con la fondamentale esigenza costituzionale che vede la pena finalizzata alla rieducazione del condannato.

Con l’emergenza Coronavirus la situazione sovraffollamento raggiunge livelli di drammaticità.

Va rilevato che non solo i reclusi corrono il pericolo di contagio, ma, altresì, come è avvenuto, le guardie carcerarie, le quali a loro volta possono divenire strumenti di contagio per le loro famiglie e le persone in genere. Il sovraffollamento carcerario può provocare dunque, ora o quando, come sembra, la pandemia dovesse ripresentarsi agguerrita, una strage tra reclusi come è avvenuto nelle case di riposo per anziani, ed essere al contempo focolaio per l’intera popola zione.

Al momento si è provveduto riprendendo una norma già introdotta con la legge 199/2010 e successive modifiche che prevede che la pena non superiore a 18 mesi anche se residua di pena maggiore possa essere scontata in regime di detenzione domiciliare. Mancano però i braccialetti per l’attuazione pratica. Al momento per la detenzione domiciliare la pena residua deve essere di 6 mesi.

È opportuno pertanto dare piena attuazione con celerità alla normativa.

Ma occorre chiedersi se sia sufficiente al fine di evitare il diffondersi dell’epidemia una misura che riduca la popolazione carceraria a quella regolamentare. Occorre chiedersi se la vigilanza sanitaria possa essere adeguatamente assicurata in tale caso. Ma occorre chiedersi, ancora, se possa il carcere assicurare la distanza personale richiesta al resto della popolazione. Occorre chiedersi se sia compatibile al fine di evitare contagi la presenza di più persone in un’unica cella. Temo che la risposta non possa essere che negativa. Che fare?

Va rilevato come al momento prevalga, sostenuta da una forza politica, una concezione carcerocentrica della pena. In realtà, il carcere non è necessariamente l’unica pena possibile come dimostra del resto la presenza nell’ordinamento penitenziario di misure alternative alla detenzione. Sia chiaro,  il carcere non può essere abolito. In relazione a vari soggetti particolarmente pericolosi esiste la necessità di una misura securitaria quale il carcere. Al di fuori, però, di tale esigenza occorre chiedersi se il carcere sia necessario. La sostanziale quarantena imposta dal coronavirus ci dimostra che pena è pure restare chiusi a casa propria.

Non ritengo che il problema del contagio nel carcere vada risolto con l’indulto o l’amnistia. Ciò sarebbe in effetti diseducativo. Alla luce, invece, di un superamento di una concessione carcerocentrica della pena e attesa la situazione di grave emergenza che è dato vivere occorre il coraggio di altre soluzioni. In particolare, non si dovrebbe limitare l’uscita dal carcere di qualche migliaio di detenuti per riportare il numero a quello regolamentare. Occorre che in carcere restino gli autori di più gravi delitti commessi con violenza ma nella condizione di vigilanza medica e di distanza sociale. Per gli altri l’alternativa dovrebbe essere quella della detenzione domiciliare nella propria dimora o, per chi non possa, in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza oltre i casi già previsti.

È questa una proposta che esige coraggio ma è anche l’occasione per ridiscutere un sistema che mostra di essere inadeguato e che nella particolare situazione è pericoloso non solo per i detenuti.

Nel frattempo va suggerito come la custodia cautelare in carcere debba disporsi in casi del tutto eccezionali, sia effettivamente l’extrema ratio, non un anticipo della pena che non necessariamente in esito del processo sarà inflitta. Altre misure possono essere sufficienti.