
Il sedicesimo numero di Restart, ce lo segnala l’instancabile amico Giovanni Rolando, esce in coincidenza con un passaggio cruciale per la vita democratica italiana: i referendum su lavoro e cittadinanza dell’8 e 9 giugno. I quesiti in gioco vanno ben oltre i singoli temi e interpellano direttamente le prospettive sociali, politiche e culturali del nostro Paese.
Restart nasce con l’intento di offrire uno spazio libero e plurale in un panorama informativo spesso piegato a logiche di potere. In un mondo sospeso tra gioco e dramma, tra prepotenza e diritti, vogliamo continuare a cercare rotte nuove. Con lucidità, con passione. E con il contributo di chi vorrà leggere, condividere, discutere.
Approfittiamo… di Restart per riprendere* l’analisi di ampio respiro sulla posta in gioco del 5 referendum che sul giornale online prospetta Christian Ferrari, segretario confederale CGIL.
Christian Ferrari, segretario confederale CGIL, definisce i referendum dell’8-9 giugno una sfida decisiva per invertire anni di precarietà e regressione sociale. Invita alla mobilitazione dal basso per difendere diritti, lavoro dignitoso e cittadinanza inclusiva. Denuncia l’emorragia di giovani, la corsa al riarmo e il disinteresse per le disuguaglianze da parte di un governo neoliberista. Per Ferrari, votare Sì significa cambiare rotta: rilanciare salari, welfare, giustizia sociale e partecipazione democratica. Solo così si potrà costruire un’alternativa al modello attuale e restituire senso e concretezza alla democrazia italiana.
Referendum: La sfida
Christian Ferrari – Segretario confederale CGIL
L’appuntamento referendario, cui manca poco meno di una manciata di giorni, è la sfida più importante che abbiamo di fronte. Una sfida non per la sola Cgil, o per i promotori del quesito sulla cittadinanza, ma per tutte le realtà, le forze politiche, le associazioni, il mondo della cultura, i semplici cittadini che vogliono favorire un cambiamento radicale del nostro modello sociale e di sviluppo.
Un cambiamento che non arriverà mai dall’alto, per gentile concessione, e men che meno da chi governa attualmente il nostro Paese, ma che va conquistato dal basso, attraverso il coinvolgimento e la partecipazione di lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, giovani, cittadine e cittadini.
Ed è esattamente quello che stiamo facendo in questi giorni decisivi. Andiamo casa per casa, strada per strada, posto di lavoro per posto di lavoro, quartiere per quartiere, dalle grandi città fino al più piccolo dei comuni, per convincere le persone in carne e ossa che – l’8 e il 9 giugno – abbiamo una grande occasione: invertire – per la prima volta dopo decenni – una lunga stagione di svalorizzazione, di precarizzazione, di impoverimento del lavoro, e dotarci – finalmente – di una legislazione civile sulla cittadinanza.
Il merito dei quesiti è presto detto: ripristino dell’articolo 18 per dire basta ai licenziamenti illegittimi nelle aziende sopra i 15 dipendenti, eliminazione del tetto massimo di sei mensilità per gli indennizzi di chi viene licenziato nelle aziende sotto i 16 dipendenti; reintroduzione delle causali per i contratti a termine, in modo da porre un freno alla precarizzazione dilagante; introduzione della responsabilità dell’impresa committente per gli infortuni che si verificano lungo la catena degli appalti, con l’obiettivo di rendere più sicuro il lavoro; dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale per ottenere la cittadinanza di chi vive, studia e lavora regolarmente in Italia.
Crediamo, in sostanza, che sia giunto il momento di dire basta a quel vero e proprio ribaltamento, che si è – via via – consumato negli ultimi decenni, nel corso dei quali siamo passati da una lunga stagione in cui invocavamo la legge per difendere i diritti di lavoratrici e lavoratori a oggi, in cui dobbiamo difendere le persone che lavorano dall’applicazione di leggi sbagliate e ingiuste che hanno ridotto i diritti e peggiorato le condizioni di vita e di lavoro di milioni di cittadini.
E ai nostri avversari, il cui unico argomento è paventare il rischio per cui – se prevalesse la nostra linea – l’Italia tornerebbe indietro di dieci anni, noi rispondiamo che è vero esattamente l’opposto. Sono le leggi in vigore ad aver rimesso indietro le lancette dell’orologio della storia di progresso e di civiltà iniziata negli anni ’70, dando corpo anche in Italia a quella “modernizzazione regressiva” che il neoliberismo ha imposto al mondo negli ultimi decenni.
Se così non fosse: non proseguirebbe la strage in corso nei luoghi di lavoro; non avremmo i dati peggiori d’Europa sulla precarietà e sulla povertà salariale; oltre mezzo milione di ragazze e di ragazzi italiani, dopo essere stati istruiti e formati nelle nostre scuole e nelle nostre università pubbliche, non sarebbero emigrati all’estero per sfuggire a un destino di instabilità e di sfruttamento che appare segnato.
Il nostro tentativo è innanzitutto quello di fermare questa vera e propria emorragia demografica.
Troppi giovani lasciano l’Italia
Per dare l’idea delle dimensioni del fenomeno, è come se in poco più di dieci anni una città delle dimensioni di Genova, tutta popolata di giovani, fosse sparita dalla nostra cartina geografica. Si tratta di una inaccettabile, e autolesionistica per il Paese, dispersione di intelligenza, di cultura, di passione che, se proseguisse, priverebbe di qualunque prospettiva di crescita e di benessere la nostra società.
La nostra è tutt’altro che una battaglia di retroguardia, ma tutta rivolta al futuro e alle nuove generazioni.
E quest’ultimo punto mi consente di agganciarmi anche al quesito sulla cittadinanza, per ribadire che non c’è alcuna invasione a cui far fronte, c’è semmai – lo ripeto – un’evacuazione, una fuga dall’Italia. Solo una classe dirigente sorda e cieca può far finta di nulla, dichiarando – a parole – di voler contrastare la denatalità, salvo poi – nei fatti – non solo non provare nemmeno a rallentarla questa emorragia, garantendo un salario, un lavoro e servizi pubblici decenti; non solo non fare nulla contro il brutale impoverimento delle fasce popolari e in particolare delle donne; ma continuare a negare a chi nasce, a chi vive, a chi lavora – e contribuisce – nel nostro Paese, il pieno riconoscimento della cittadinanza.
Siamo ovviamente ben consapevoli che la sfida democratica che abbiamo lanciato non è per niente facile. Anzi, potrebbe sembrare persino proibitivo riuscire a portare alle urne – nell’epoca della disaffezione, della disillusione, dell’astensionismo – la “metà più uno” degli aventi diritto al voto.
Intanto, è di questi giorni un sondaggio commissionato dal Corriere della Sera in cui si evidenzia come ci sia un potenziale del 43% di elettori già propensi ad andare a votare. Un dato molto alto se si considera che fin qui i media hanno sostanzialmente silenziato il dibattitto su questo tema. E ciò rende fondamentale il lavoro che possiamo fare prima dell’aperture delle urne. Un lavoro che può davvero fare la differenza.
Ma, al di là dei numeri, ciò su cui dobbiamo riflettere è perché le persone – soprattutto quelle che appartengono alle fasce popolari – non vanno più a votare.
E la ragione non è che non possono eleggere un capo a cui affidare pieni poteri, come ci racconta la maggioranza di Governo. La verità è che la gente non va più a votare perché non crede più nella capacità della politica, delle istituzioni – della stessa democrazia – di cambiare e migliorare le proprie condizioni materiali di vita e di lavoro; e perché – a prescindere dagli esiti elettorali – le scelte e le ricette sostanzialmente sembrano non cambiare mai.
Basti pensare ai sedicenti sovranisti, abilissimi ad agitare la crisi sociale durante la campagna elettorale, salvo poi rivelarsi – una volta al potere e al governo – i più fedeli (e zelanti) custodi di un modello di sviluppo ormai insostenibile sia dal punto di vista sociale, che ambientale.
Bassi salari e riarmo: una ricetta sbagliata
Prendiamo – come esempio – un tema di strettissima attualità: quello della folle corsa al riarmo, decisa dall’alto, a livello europeo, e con il pieno avallo – e il voto favorevole – del Governo di Giorgia Meloni.
Da qualunque sondaggio venga effettuato, risulta evidentissima la netta contrarietà a questa deriva della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica. Eppure, tutto questo non viene tenuto in alcuna considerazione. Il parere dei cittadini sembra ormai diventato un trascurabile dettaglio di fronte a decisioni che ci vengono presentate come obbligate, ineludibili, addirittura incontestabili.
E non è solo la volontà popolare a non contare nulla. Non contano nulla nemmeno i fatti.
Altro esempio: non è che fosse necessario l’arrivo di Trump alla Casa Bianca e la sua dissennata ricetta dei dazi, per capire che il modello mercantilista europeo – tutto fondato sui bassi salari, sui tagli al welfare e sull’austerità – non stava più in piedi.
Era già chiarissimo che, se avessimo continuato a comprimere la domanda interna e a puntare tutto sull’export, saremmo andati a sbattere. Eppure, si è andati avanti lo stesso, con il solito pilota automatico. Si è negata l’evidenza.
Anzi, se pensiamo al Governo italiano, si continua a vivere in una realtà parallela, celebrando record ormai del tutto immaginari, mentre la produzione industriale crolla da 26 mesi consecutivi, mentre la povertà aumenta, mentre un’inflazione da profitti ha ridotto drasticamente il potere d’acquisto di milioni di lavoratori e pensionati.
E allora, altro che saccheggiare – come ha proposto la premier – PNRR e Fondi di coesione per regalare altre decine di miliardi di euro alle imprese, ancora una volta a pioggia, senza uno straccio di strategia, sottraendoli ai soggetti e ai territori più deboli, a partire – evidentemente – dal Mezzogiorno.
O, addirittura, utilizzare quelle risorse per le armi, come vorrebbe il commissario europeo Fitto.
Rilanciare la domanda interna
Occorre fare esattamente il contrario: rilanciare la domanda interna – a partire da dove è più debole – aumentando i salari pubblici e privati; rafforzare lo stato sociale; mettere in campo politiche industriali capaci di fermare la deindustrializzazione in corso e di affrontare le sfide della transizione digitale e della conversione ecologica dei nostri sistemi produttivi.
Non possiamo infatti dimenticare che il cambiamento climatico resta la principale minaccia alla stessa sopravvivenza del genere umano, che non scompare con la “sola imposizione delle mani” del presidente americano.
Potrebbe sembrare che quanto appena detto abbia poco a che fare con i quesiti che abbiamo proposto. Io la penso diversamente.
Il significato vero – profondo – della tornata referendaria di giugno va ben oltre il merito delle singole questioni su cui dovremo votare (che restano importantissime), e ha una valenza politica molto più ampia e generale.
Noi siamo convinti che – se raggiungeremo il quorum – riusciremo a fare un primo passo decisivo per costruire l’alternativa: non tanto e non solo ad un governo, ma a un sistema malato (che sta facendo letteralmente esplodere le diseguaglianze sociali e i divari territoriali), rimettendo al centro il lavoro libero, sicuro e ben retribuito; rimettendo al centro una società accogliente e inclusiva, che vede nelle “nuove italiane” e nei “nuovi italiani” una risorsa irrinunciabile per il nostro Paese – e per la nostra democrazia – e non certo una minaccia; rilanciando – soprattutto – l’obbiettivo (per dirla con le parole di papa Francesco nell’ultimo messaggio pasquale) di disarmare le menti e il mondo e rendere di nuovo possibile la pace, fermando il prima possibile le carneficine che si stanno consumando a est dell’Europa e a sud del Mediterraneo, dove (parlo ovviamente di Gaza) siamo tornati all’assedio in pieno stile medievale, che fa morire la popolazione civile non solo bombardandola senza tregua, ma per fame, per sete, per malattia.
Ed è chiaro che, se questo è il nostro orizzonte, è inutile sperare in un presidente (un tempo si sarebbe detto “nel sovrano”) illuminato e con le mani libere.
Senza giustizia sociale la democrazia è una scatola vuota
C’è un’unica strada da percorrere: rimettere al centro la partecipazione e la democrazia.
Una democrazia che si difende non restringendola, non avendone timore, ma praticandola e rilanciandola dal basso, con l’obiettivo fondamentale di rafforzarla attraverso la giustizia sociale, senza la quale qualsiasi democrazia rimane solo un involucro, una scatola vuota.
In definitiva, l’alternativa che avranno di fronte le italiane e gli italiani è piuttosto semplice: se ritengono che “tutto vada bene madama la marchesa”, come sostiene Giorgia Meloni, che non a caso invita all’astensione, possono pure votare no; a patto però di sapere che, se si lasciano sfuggire questa occasione, è certo, matematico, che tutto resterà così com’è, che nulla di significativo succederà per mutare la loro condizione di vita e di lavoro.
Se invece pensano che sia necessario cambiare la loro condizione e quella del Paese, allora, hanno un’occasione straordinaria a portata di mano per farlo: votare Sì a tutti e cinque i quesiti, determinando un risultato immediato e tangibile dal giorno successivo per milioni di persone; ma soprattutto, indicando chiaramente una direzione radicalmente alternativa rispetto alle politiche economiche e sociali degli ultimi decenni.
Noi, d’altronde, siamo nati fondamentalmente per questo: far partecipare le lavoratrici, i lavoratori, le pensionate e i pensionati, i cittadini alla vita democratica del Paese; per metterli nelle condizioni di decidere, di contare, di incidere sulle scelte politiche da cui dipendono il futuro loro e quello delle nuove generazioni.