Riforma giustizia, analisi e opinioni ex magistrato Giovanni Schiavon: è un pilastro per Recovery Fund, ma alcune scelte di Cartabia fanno pensare

Ministro Giustizia Marta Cartabia ed ex magistrato Giovanni Schiavon
Ministro Giustizia Marta Cartabia ed ex magistrato Giovanni Schiavon

Uno dei quattro pilastri sui quali è costruito il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNNR) che l’Italia, come gli altri partner UE, dovranno consegnare a Bruxelles per accedere alle risorse del Recovery Fund, è la Riforma della Giustizia (civile, soprattutto, penale e tributaria). È, questa, l’occasione per adeguare il nostro (ormai obsoleto) ordinamento giuridico alle esigenze di una società moderna e in grado di accompagnare il Paese nella sua auspicata crescita economica e sociale. Ed è, soprattutto, l’occasione per riordinare il nostro   corpo normativo, rendendolo chiaro e coerente. L’Italia – si sa – è il Paese europeo con il maggior numero di leggi, un numero spropositato, che neppure noi conosciamo di preciso, spesso contraddittorie o incompatibili con altre, inspiegabilmente sopravvissute a precedenti riforme o tacitamente abrogate; questa situazione inevitabilmente moltiplica i già tanti dubbi interpretativi, spesso acuiti dall’uso di un lessico poco comprensibile.  Per di più, la burocrazia – che è un’altra piaga a noi nota e che non manca di inquinare anche la magistratura – è molto solerte nello scovare vecchie leggi dimenticate per complicare la vita al cittadino e infragilirlo davanti a sempre più frequenti discutibili scelte politico-gestorie del nostro pletorico apparato amministrativo.

La burocrazia è frutto di un’eccessiva complicazione delle regole e rappresenta la più immediata auto difesa dei burocrati dal pericolo di commettere errori interpretativi nell’applicarle nella vita quotidiana: non a caso, essa è stata argutamente definita la “scienza che insegna a non prendere decisioni ed a fuggire da ogni responsabilità”.

Una seria riforma della “Giustizia”, in qualunque suo settore, richiede, però, una preliminare riflessione di fondo sulla nomina dei magistrati (per la quale il dettato costituzionale, art.106, impone il pubblico concorso), e sulla loro formazione.  Non si creda di poter trascurare questo problema perché è giunto il momento delle scelte fondamentali che dovranno connotare il futuro della nostra Giustizia;  altri rinvii non sono consentiti se davvero si intende ottenere un radicale cambiamento, in grado di allineare il nostro ordinamento giuridico e la nostra organizzazione giudiziaria alle giuste aspettative dell’Europa.

Il mio personale convincimento è che il punto di partenza debba essere quello (delicatissimo) della selezione dei magistrati, il cui numero non dovrebbe affatto essere aumentato; si finirebbe per annacquarne la qualità e per creare i presupposti per un diffuso scadimento professionale della categoria.

I magistrati non sono pochi; sono solo male distribuiti e, soprattutto, male impiegati.

La ragione per la quale l’arretrato continua ad aumentare ed i tempi delle decisioni si allungano non risiede nella carenza del numero di magistrati o in una loro indolenza (al contrario, è risaputo che quelli italiani, soprattutto della Corte di Cassazione, sono i più laboriosi di tutti i Paesi europei, in termini di pura produttività), ma dipende dall’enorme quantità di affari quotidiani dai quali, in ogni settore, essi sono sempre più pressati. In altre parole, il numero di contenziosi nuovi è, quasi ogni anno, superiore a quelli che i giudici riescono a smaltire; l’arretrato, così, aumenta progressivamente e rende vano ogni sforzo per ridurlo e appagare la domanda di giustizia nel nostro Paese.

Ricordo che, per contrastare la tendenza all’aumento dell’arretrato, si è tentata, nel recente passato, ogni strada, ma sempre senza significativi risultati: dalle sentenze con motivazioni brevi, ai cosiddetti filtri in cassazione, alla riduzione di molti  termini processuali ecc.

Vero è che un rimedio non può essere cercato in una riforma diretta solo a snellire l’iter processuale: ogni processo ha (e deve avere) i suoi tempi, che, più di tanto, non possono essere ridotti, se non si vuole connotare le decisioni di superficialità.  L’efficienza del sistema va valutata nel suo complesso, cioè nella sua capacità di affrontare tutti gli affari in tempi accettabili e soddisfacenti, ma anche per la sua capacità di consentire i dovuti approfondimenti, sia giuridici, che fattuali. D’altra parte, puntare solo su una previsione di aumento delle sentenze, in termini puramente numerici, comporterebbe il rischio di indurli ad un pressapochismo decisionale, che sarebbe un male ancora peggiore.

Già la Corte di Cassazione, la cui produttività è una delle più alte al mondo, rischia l’intasamento e, con esso, il degrado qualitativo. Quale potrebbe essere, allora, un opportuno rimedio? Come ho avuto, più volte, occasione di dire, credo che la prima strada da percorrere sia, soprattutto, quella della ricerca della massima specializzazione dei magistrati, che, in tal modo potrebbero non solo avere una maggiore (e significativa) produttività individuale, ma, quel che più conta, assicurare una stabilità decisionale tale da scoraggiare la sistematica  proposizione di impugnazioni, spesso effettuate all’unico scopo di prolungare nel tempo l’esecutività delle sentenze. Occorre, al più presto, evitare che i magistrati, nella loro carriera, passino frequentemente da una funzione all’altra, anche radicalmente diversa, come, da qualche anno, impone la c.d. legge Mastella (dal nome del ministro che ne è stato relatore) la quale, a mio avviso, è una vera e propria follia, in termini di formazione tecnica dei magistrati,  perché li induce a non potersi mai impegnare approfonditamente e stabilmente in alcune materie, magari più conformi alla loro cultura ed alle loro inclinazioni personali, ben sapendo che quella normativa impone il loro obbligatorio cambiamento continuo di funzioni.

Ho preso atto che l’attuale Governo pare voler attuare una Riforma della Giustizia riducendo a due, anziché tre, come ora e da anni, previsto, le prove scritte di concorso. Talché il candidato sarebbe costretto a scegliere subito, prima ancora del concorso, le materie per il suo futuro professionale. Con il dovuto rispetto per le opinioni di tutti, credo che una tale soluzione sia una delle più strampalate fra le tante idee che hanno sempre accompagnato i molti tentativi di riforma del sistema-giustizia. Non è dato proprio di capire quale possa essere il vantaggio di ridurre le prove di esame, soprattutto perché un giovane candidato non può ancora avere un minimo di esperienza  per capire le sue future inclinazioni professionali. Ma, poi, quale sarebbe l’aspetto positivo di questo cambiamento?

La Ministra Cartabia si è assunta un compito difficilissimo: quello di riformare la Giustizia, che è uno dei temi politici più divisivi. Ma, se si comincia a questi livelli, temo che non si potranno fare molti passi in avanti…

Giovanni Schiavon

già presidente del tribunale di Treviso

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