Solitudine condivisa: il multiplayer asincrono di Death Stranding 2 a distanza di mesi

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(Adnkronos) – C’è qualcosa di affascinante e inquietante nel modo in cui Death Stranding 2: On the Beach continua a esistere, mesi dopo il suo lancio. Non è solo un videogioco, ma una rete di gesti, scelte e connessioni invisibili che ancora oggi modellano un mondo comune. Hideo Kojima aveva già intuito con il primo Death Stranding che il futuro del multiplayer non sarebbe stato fatto di lobby, matchmaking o punteggi, ma di segni lasciati da altri, di presenze che non si vedono ma che si sentono. E in questo sequel, quell’idea si è trasformata in qualcosa di ancora più complesso, e più attuale di quanto sembri. Oggi, a distanza di mesi dall’uscita, il cosiddetto Social Strand System non è più una curiosità concettuale, ma una forma di vita persistente. Entrare nel mondo di Death Stranding 2 significa muoversi in un ecosistema che si costruisce e si consuma da solo: ponti, zip-line, rifugi e generatori disseminati ovunque, oggetti persi e ritrovati, tracce di viaggi compiuti da sconosciuti che attraversano il tuo stesso cammino. Il gioco non ti obbliga a condividere, ma ti tenta costantemente a farlo, con la stessa ambiguità con cui i social network ci spingono a esporci “per il bene comune”. Il principio resta quello del primo capitolo: non incontri mai direttamente altri giocatori, ma le loro azioni permeano l'esperienza. Tuttavia, in On the Beach la portata di questa connessione è più vasta e pervasiva. Ogni regione collegata alla rete chirale diventa un crocevia di infrastrutture collettive, di strade aperte e percorsi plasmati dall’uso comune. Più un tragitto viene battuto, più la terra si spiana, quasi fosse un organismo che reagisce alla memoria dei suoi abitanti. È un’idea straordinaria, che rende tangibile il concetto di “mondo condiviso” senza mai trasformarlo in cooperazione diretta. Ma la vera novità non è solo tecnica: è sociale. Dopo l’entusiasmo dei primi mesi, quando ogni giocatore costruiva e lasciava messaggi ovunque, la rete del gioco ha iniziato a stabilizzarsi, a sedimentare. Oggi chi entra in Death Stranding 2 trova un mondo già pieno, in parte costruito, in parte deteriorato, dove la solitudine non è più assoluta, ma nemmeno il conforto degli altri lo è davvero. C’è chi parla di “inquinamento visivo”, con troppe strutture che spezzano l’atmosfera malinconica del gioco; altri, invece, vedono in questa invasione collettiva la prova più coerente della visione di Kojima: il caos della connessione, la perdita di controllo sulla comunità che hai contribuito a creare. Negli ultimi mesi, la discussione tra i giocatori si è accesa: alcuni chiedono la possibilità di filtrare le strutture altrui, altri difendono la libertà totale di lasciare segni ovunque. E mentre il dibattito prosegue, Kojima stesso ha dichiarato di “analizzare i dati” sui percorsi e sulle abitudini dei portatori, quasi a suggerire che anche lui, come un osservatore silenzioso, stia tracciando le nostre traiettorie. È un gioco che osserva chi gioca, un sistema che riflette la nostra idea di connessione e di isolamento. Il multiplayer asincrono di Death Stranding 2 funziona come una lente sulla società: non ci unisce per combattere, ma per ricordarci che la nostra presenza online – come nella vita – lascia tracce anche quando non vogliamo. E se nel primo capitolo la solitudine era un deserto da attraversare, qui diventa una condizione collettiva, abitata da fantasmi che non vedremo mai ma che, paradossalmente, ci aiutano a sopravvivere. C’è poi una dimensione filosofica che rende l’esperienza ancora più attuale. In un’epoca in cui siamo costantemente connessi, Death Stranding 2 ci costringe a chiederci se quella connessione sia davvero un bene. “Should we have connected?”, si legge su uno dei cartelli lasciati dai giocatori, riprendendo ironicamente il motto del gioco. È una domanda che oggi pesa più che mai: in un mondo digitale dove l’interconnessione è un dogma, Kojima ci invita a sperimentare la connessione come scelta, non come obbligo. Giocare oggi a Death Stranding 2 significa quindi confrontarsi con un ecosistema che non appartiene più solo al creatore, ma alla comunità che lo abita. Il mondo è cambiato: le strade sono già costruite, i rifugi già piazzati, i ponti già attraversati da migliaia di sconosciuti. Eppure, anche in questo paesaggio saturo, resta spazio per un gesto autentico, per un segno nuovo. Un cartello lasciato nel punto giusto, una scala piazzata al momento esatto, un piccolo atto di generosità che un altro giocatore, da qualche parte, ringrazierà senza mai sapere chi sei. Forse è proprio questa la magia del sistema asincrono di Death Stranding 2: non tanto connetterci, quanto ricordarci che possiamo ancora scegliere come farlo. Nel silenzio di un paesaggio devastato, sapere che qualcuno, prima di te, ha trovato un modo per attraversarlo rende tutto più umano. E in fondo, in un mondo dove la connessione è data per scontata, forse il vero gesto rivoluzionario è ancora quello di scegliere di connettersi — o di restare soli. 
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