Test sierologici, ecco cosa sappiamo del Covid: il 27% dei positivi è asintomatico

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Test sierologici
Test sierologici

Il report dell’Istat è il risultato dell’indagine di sieroprevalenza realizzata insieme al ministero della Salute su un campione di 64mila individui: quasi 1,5 milioni di italiani è entrato in contatto con il virus. Sui contagi pesano sia i luoghi di lavoro, con una prevalenza maggiore tra gli operatori sanitari e gli impiegati nel settore della ristorazione, sia la trasmissione intrafamiliare: il 40% dei parenti conviventi di positivi al Covid ha sviluppato gli anticorpi

di Martina Milone sul Fatto Quotidiano del 4 AGOSTO 2020

Almeno un bergamasco su quattro è “entrato in contatto con il coronavirus” e oltre la metà delle persone che hanno sviluppato gli anticorpi per il SarsCov2 viene dalla Lombardia. Gli asintomatici sono il 27%, ma è dentro casa che il rischio contagio è maggiore: il 40% dei parenti conviventi di contagiati è positivo alle IgC. L’attività lavorativa, inoltre, conta: più colpiti gli operatori sanitari e gli addetti alla ristorazione. È la fotografia dell’epidemia in Italia. A “scattarla” il report nato dall’indagine di sieroprevalenza condotta da Istat e ministero ella Salute in collaborazione con la Croce Rossa Italiana su 64mila cittadini. Quanto emerso dalla campagna, inizialmente pensata su 150mila persone, è stato presentato ieri ed è frutto delle proiezioni statistiche dei risultati dei test sierologici realizzati tra il 25 maggio e il 15 luglio. In tutto, nonostante ad oggi siano 250mila i positivi al Covid, secondo l’osservazione sono 1,5 milioni gli italiani che hanno “incontrato” il virus, cioè il 2,5 della popolazione residente in famiglia: circa 6 volte di più dei casi riportati dai bollettini ufficiali.

Le differenze regionali: a Bergamo il tasso di sieroprevalenza più alto – La chiave di lettura del report è proprio il territorio. Come già evidenziato dai dati ufficiali in tema di mortalità e dai livelli di infezione, la Lombardia raggiunge il massimo con il 7,5% di sieroprevalenza, cioè secondo le stime 754mila lombardi su una popolazione di 10 milioni hanno sviluppato gli anticorpi. Un numero in media 7 volte più alto delle regioni a più bassa diffusione, come quelle del Mezzogiorno. “I dati ci dicono che le persone contagiate sono state una piccola parte – ha sottolineato la direttrice generale dell’Istituto di statistica alla presentazione – Ma ci dicono anche che non si può abbassare la guardia perché conta molto rispetto delle regole“. Da sola la regione guidata da Attilio Fontana, assorbe il 51% delle persone con Igc positivo. “D’altra parte in Lombardia – osserva l’Istat – dove è residente circa un sesto della popolazione italiana, si è concentrato il 49% dei morti per il virus e il 39% dei contagiati ufficialmente intercettati durante la pandemia”. Ed è proprio all’interno della regione che vengono individuate anche le province con il picco di sieroprevalenza: si tratta di Bergamo e Cremona con punte, rispettivamente, del 24% e del 19%. Dopo la Lombardia segue la Valle d’Aosta, con il 4%, e poi altre regioni del centro-nord, come Piemonte, le province autonome di Trento e Bolzano, Liguria, Emilia Romagna e Marche, con tassi di sieroprevalenza attorno al 3%. Il Veneto, invece, che proprio in queste ore è sotto la lente di ingrandimento per alcuni focolai, e dove si è sviluppato uno dei primi cluster attorno al centro di Vo’ Euganeo, ha un tasso dell’1,9%. Otto regioni, rileva ancora il report, possono invece vantare una percentuale inferiore all’1%, con valori minimi in Sicilia e Sardegna, entrambe allo 0,3%. Una incidenza “straordinariamente diversificata fra le Regioni e addirittura all’interno della stessa regione”, ha commentato il presidente del Consiglio superiore di sanità (Css) Franco Locatelli durante la presentazione del rapporto, che fa emergere “informazioni cruciali per 3 obiettivi: definire l’incidenza” del virus “nelle diverse aree territoriali, individuare la quota dei soggetti asintomatici e rifinire il tasso di letalità”.

Uomini e donne colpiti allo stesso modo, ma conta il lavoro svolto – Se da una parte le diversità regionali rappresentano un modello interpretativo della diffusione del contagio, lo stesso non si può dire per le differenze di sesso ed età. Secondo le stime dell’Istat, infatti, “uomini e donne sono stati colpiti nella stessa misura dal SARS-CoV-2 così come emerso anche da studi di altri Paesi” e lo stesso vale per la stratificazione tra giovani e meno giovani. L’indagine, tuttavia, mette in risalto una caratteristica: il dato di sieroprevalenza più basso si riscontra nei bimbi da 0 a 5 anni (1,3%) e negli anziani sopra gli 85 anni (1,8%). Numeri che, secondo l’Istituto di statistica, indicano un “maggior grado di protezione” verso questi due segmenti di popolazione, che sono quindi i meno colpiti. “Il fenomeno in età pediatrica”, ha sottolineato Locatelli, può essere legato “alla ridotta espressione del recettore per Sars-Cov2 nei bambini” come conferma “uno studio spagnolo pubblicato su ‘Lancet’”.

Ma ad emergere di più sono soprattutto le differenze riscontrate al livello lavorativo. Mentre gli occupati sono stati toccati dal virus in maniera analoga ai non occupati, si legge nel rapporto, numeri diversi si rilevano in base al settore di attività economica. Il “bollino rosso” in termini di sieroprevalenza va alla Sanità, settore che ha un tasso medio di positivi agli anticorpi del 5,3%. Il dato arriva quasi al 10% in Lombardia, mentre scende all’1,4% nel Mezzogiorno. Gli occupati in settori essenziali e attivi durante la pandemia “non presentano valori significativamente più elevati (2,8%) rispetto alla popolazione generale”, ma sono da tenere in considerazione, “in termini di misure e provvedimenti di politica sanitaria”, i numeri relativi al settore della ristorazione e dell’accoglienza con un tasso di prevalenza del 4,2%. Sul versante dei non occupati, infine, il tasso medio di sieroprevalenza si attesta al 2,1% per le casalinghe, al 2,6% per i ritirati dal lavoro, al 2,2% per gli studenti e all’1,9% per le persone in cerca di lavoro.

I contagi intrafamiliari e il caso degli asintomatici – Il report mette inoltre l’accento sulla situazione dei contagi intrafamiliari, vale a dire quelli che avvengono all’interno delle mura domestiche. Secondo l’indagine, il 41,7% delle persone che ha avuto un caso di positività tra i propri familiari conviventi ha sviluppato gli anticorpi. I numeri si abbassano in maniera considerevole se il familiare non risulta convivente (15,9%). Se si guarda fuori dalla sfera familiare, poi, è positivo alle IgG il 16,4% delle persone che conferma di aver avuto contatti con persone positive. Tra chi ha avuto contatti con colleghi di lavoro contagiati, infine, è stata registrata una sieroprevalenza dell’11,6%. “La trasmissione intrafamiliare è molto elevata – osserva l’Istituto di statistica – Ma è anche vero che se si adottano le misure di protezione il contagio non avviene, come accaduto per il 60% della popolazione che ha avuto familiari conviventi con il Covid”.

Una “quota non bassa” poi è rappresentata dagli asintomatici. Secondo il report quasi “il 30% delle persone con anticorpi” non ha presentato sintomi. Una percentuale “molto importante perché evidenzia quanto ampia sia la quota di popolazione che può contribuire alla diffusione del virus” e quindi “quanta attenzione ciascun cittadino deve porre alla scrupolosa applicazione delle misure basilari di sicurezza a difesa di se stesso e degli altri”, sottolineano gli autori del report. Della “torta dei positivi alle Igc”, poi, se si esclude il 6,5% di non rispondenti, resta un 41% di persone entrate in contatto con il virus che ha presentato almeno tre sintomi, tra cui la perdita di olfatto e/o di gusto come unico sintomo. Questi hanno avuto, appunto, più manifestazioni del Covid, in particolare febbre (68,3%), perdita di gusto (60,3%), sindrome influenzale (56,6%), perdita di olfatto (54,6%), stanchezza (54,6%), dolori muscolari (48,4%), tosse (48,1%), mal di testa (42,5%). C’è poi un 24,7% di persone che ha sviluppato gli anticorpi che ha presentato solo uno o due sintomi, esclusa la perdita dell’olfatto e/o del gusto, e che ha avuto come spie principali della malattia la febbre (27,8%), la tosse (21,6%) o il mal di testa (19,2%).

Ma come leggere questi dati, in particolare quello generale? Secondo il presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, “il 2,5% di sieroprevalenza può sembrare” un numero “piccolo, ma può trasformarsi in qualcosa di problematico se non rispettiamo la prudenza”. L’esempio fatto dal presidente è semplice: “Vuol dire che la probabilità di incontrare una persona positiva è 2,5. Se uno in una giornata incontra 20 persone, ha il 50% circa di probabilità di aver incontrato una persona positiva. Durante la settimana quindi uno ha mediamente incontrato 3,5 persone positive. Il rischio contagio c’è”. Ma non solo, secondo Locatelli i numeri del report cambiano il tasso di letalità: “Tenendo conto dei 35 mila morti”, dei positivi “e anche di quanti italiani hanno avuto contatti con il virus, il tasso di letalità in Italia scende a circa il 2,5%”. Questi dati di sieroprevalenza, ha concluso il presidente del Consiglio superiore di Sanità “sono assolutamente cruciali per definire la quota di soggetti asintomatici, rifinire il tasso di letalità e avere il quadro territoriale”, ma, ha ricordato “indicano il fatto di ‘aver incontrato il virus’, che è però cosa diversa dal conferire qualsiasi patentino di immunità”.