Tra il 5 e il 6 dicembre del 2007 otto operai della ThyssenKrupp di Torino furono investiti da olio bollente, solo uno sopravvisse…

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I morti alla ThyssenKrupp di Torino
I morti alla ThyssenKrupp di Torino

Nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007 otto operai dello stabilimento ThyssenKrupp di Torino furono investiti dalla fuoriuscita di olio bollente.

Un solo operaio riuscì a salvarsi miracolosamente; gli altri sette, invece, morirono, bruciati vivi, dopo sofferenze indicibili. Questa tragedia non fu una tragica fatalità. Avvenne a causa delle condizioni di estrema precarietà e insicurezza nelle quali gli operai erano costretti a lavorare. Possono essere considerati veri e propri omicidi. Nei processi che seguirono alcuni responsabili furono condannati ma i principali colpevoli vivono in Germania ancora a piede libero.

Noi vogliamo ricordare i nomi dei sette operai uccisi: Antonio Schiavone, Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino.

Dopo questa tragedia alla ThyssenKrupp ci furono promesse di affrontare la questione della sicurezza nei luoghi di lavoro. Il risultato fu quello di un progressivo ammorbidimento delle sanzioni previste nel “Testo unico sulla sicurezza sul lavoro” e una diminuzione, di fatto, delle risorse economiche e umane destinate alla prevenzione e al controllo della sicurezza nel lavoro. Anche la giustizia è stata carente. Tra prescrizione, cavilli vari e normative ambigue e interpretabili, moltissimi processi sono finiti in un nulla di fatto o in interminabili udienze. Ad esempio è bene ricordare il processo Marlane Marzotto terminato con “nessun colpevole” a fronte di oltre cento lavoratori deceduti per malattia riconducibile alle condizioni di lavoro. In definitiva le pochissime condanne che ci sono state sono finite in poca cosa e in nessun deterrente.

Le condizioni nelle quali si lavora abitualmente sono rimaste le stesse anzi, spesso, risultano peggiorate. La corsa alla competizione anche tra i lavoratori e l'aumento della precarietà (esasperata da bassi salari, ricatto occupazionale abitualmente usato per diminuire i costi, aumento dei ritmi di lavoro e della conseguente alienazione, progressivo invecchiamento di lavoratrici e lavoratori che non possono andare in pensione …) hanno determinato le situazioni di insicurezza e incuria per le quali ogni giorno si muore.

Tutte le promesse di maggiore sicurezza dopo il dramma della ThyssenKrupp si sono rivelate pura e semplice propaganda. Tutti i governi che sono stati in carica dal 2008 a oggi si sono occupati d'altro. Chi vive del proprio lavoro ha continuato a infortunarsi e ammalarsi per mancanza di sicurezza, a morire a causa di condizioni di insicurezza volute o tollerate. Non c'è stata nessuna tregua o armistizio nel conflitto che esiste tra capitale e lavoro.

È bene che si sappia che, in questi ultimi tredici anni, oltre 8.000 sono state le vittime per infortunio nei luoghi di lavoro, che diventano oltre 16.000 se si considerano anche le lavoratrici e i lavoratori deceduti per strada o in itinere.

Oggi, a distanza di tredici anni dal massacro della ThyssenKrupp, si ha la notizia che un giovane operaio di 23 anni, Cristian Cuceu, è morto in una fabbrica di San Donà di Piave nella sera di venerdì 4 dicembre incastrato in un tornio. L'ennesimo lavoratore morto quest'anno. Una notizia che, come tante, ha poco risalto perché, mentre il dibattito è incentrato su come si potrà passare il Natale, la mancanza di sicurezza nei luoghi di lavoro è considerata, evidentemente, una questione marginale, non degna di nota.

Eppure da inizio anno, oltre 550 persone sono morte per infortunio nei luoghi di lavoro che diventano oltre 1040 se si considerano anche i decessi in itinere. E sono oltre 450 le lavoratrici e i lavoratori morti a causa del covid-19 contratto nei luoghi di lavoro. Persone e non numeri, di ogni età, di varie nazionalità, che svolgevano attività diverse, che avevano il diritto di lavorare e di vivere.

Infine è doveroso ricordare che ogni anno migliaia di persone muoiono per malattie professionali o per l'inquinamento prodotto da attività produttive poco o per niente sicure. L'ex ILVA è un esempio eclatante, così come lo sono le varie discariche di rifiuti tossici che vengono “scoperte” nei vari territori del nostro paese.

Tutte queste morti non sono qualcosa di inevitabile e neppure tragiche fatalità. Non sono nemmeno un “tributo dovuto al progresso”. Sono l'effetto, questo si tragico, del sistema nel quale viviamo, un modello di sviluppo spaventoso e irriformabile che privilegia il profitto individuale e che considera la sicurezza nel lavoro un costo che può e deve essere abbattuto. Sono il risultato tragico del considerare il mercato motore di qualsiasi cosa, una specie di religione nella quale chi vive del proprio lavoro viene considerato null'altro che “capitale umano”, un ricambio che può essere scartato quando non serve più. Lavoratrici e lavoratori sono ridotti a diventare meccanismi di una macchina infernale. A loro, al massimo, viene riservata qualche parola di cordoglio quando “si rompono”. Niente di più.

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Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.