
Gentile direttore, sulla questione delle feste americane (Italia-America Friendship Festival, ndr), che stai seguendo, mi conforta il fatto che di qui a settembre si moltiplicheranno le occasioni per metterne in evidenza la strumentalità (e i costi a dispetto di sponsor ufficiali “costretti” a sostenerli e di sponsor italoamericani che operano comunque al servizio degli USA). Fra le mie carte ho ritrovato “un bignamino” che confezionai a suo tempo espressamente per lettori più giovani e poco informati sulla natura assai poco culturale e amichevole a Vicenza, dazi attuali a parte, degli americani, intesi non come popolo ma come Stato; dovrebbe avere più di dieci anni ma sembra scritto ieri. Un cordiale saluto.
Emilio Franzina
Città d’arte per l’Unesco e città di Palladio nel senso comune, Vicenza è anche una città “americana” e fortemente militarizzata per le basi di guerra che si trova ad ospitare dalla fine del secondo conflitto mondiale quando le truppe della V Armata USA, il 28 aprile del 1945, vi fecero ingresso da liberatrici accolte dall’entusiasmo della popolazione che pure aveva subito gli effetti disastrosi di molti bombardamenti terroristici responsabili della morte di oltre 2000 persone.
Nel novembre del 1944, infatti, ma anche prima e dopo questa data, sino alla immediata vigilia della Liberazione, bersagli delle incursioni alleate erano stati l’area dell’aeroporto Dal Molin e lo stesso centro storico dov’era addirittura andata a fuoco, il 18 marzo del 1945, la celebre Basilica palladiana.

Dieci anni più tardi, in seguito alla “neutralizzazione” dell’Austria, un robusto contingente di soldati americani, destinato man mano a ingigantirsi, fece ritorno a Vicenza in nuova veste e si stabilì nella caserma Ederle (poi Camp Ederle) alla prima periferia della città come forza alleata (Setaf) in seno alla Nato e in virtù di un accordo bilaterale (BIA) siglato l’anno prima fra Italia e USA, i cui contenuti sono a tutt’oggi segreti e sconosciuti persino al Parlamento nazionale.
Iniziava così un lungo periodo di permanenza nel Vicentino degli americani in armi che dura ininterrottamente da allora e che venne inaugurato la sera del 25 ottobre 1955 da un concerto jazz della Banda militare USA offerto per l’occasione alla cittadinanza e coronato dall’esecuzione di una marcia patriottica statunitense dal titolo senz’altro indicato e al tempo stesso premonitore: Star and stripes forever.
Gli anni di presenza americana nel Vicentino superano infatti ormai largamente i 53 totalizzati dagli austriaci fra il 1813 e il 1866 anche se all’inizio di questa parabola furono avallati dalle autorità locali e centrali di un paese vinto e impoverito per le opportunità di lavoro e per i vantaggi che avrebbero dovuto portare ai vicentini secondo una idea di Mariano Rumor il quale ne fu tra i principali sostenitori.
I primi contatti con i vicentini non furono tutti negativi e sino alle soglie degli anni sessanta diedero anzi luogo anche a (pochi) matrimoni misti e ad alcuni reciproci annusamenti di cui, però, vennero ben presto a mancare gli auspicati sviluppi. Non ci fu nessun tipo d’integrazione e l’unico segno di novità venne offerto dall’incremento delle risse fra militari e dai loro piccoli e meno piccoli reati contro i quali, nel solco di una nota tradizione, la nostra magistratura si scoprì pressoché impotente a intervenire.
Prevalsero, insomma, una sostanziale estraneità e la sensazione diffusa di un incontro artefatto e forzoso con degli alieni mezzo palombari e mezzo elicotteristi colta alla perfezione da Goffredo Parise il quale proprio così ne scrisse in un suo aureo racconto – Gli americani a Vicenza – pubblicato su l’”Illustrazione Italiana” nel 1958 e poi in forma di opuscolo presso Scheiwiller nel 1966.
La situazione si protrasse invariata per quasi mezzo secolo sino all’alba del nuovo millennio quando, cambiata la città come del resto il mondo, una combinazione politico diplomatica favorevolissima agli interessi di Washington ma del tutto al di fuori dell’ambito Nato portò fra il 2003 e il 2005 alla stipula di un nuovo accordo, mantenuto stavolta, se possibile, ancora più riservato del precedente, fra il governo Berlusconi , gli USA e, del tutto all’insaputa della città, il sindaco di Vicenza allora in carica Enrico Hüllweck, un ex missino ed ex parlamentare della Lega transitato in Forza Italia e assecondato dal suo assessore tecnocratico Claudio Cicero.

Tale accordo prevedeva la cessione agli americani di una vasta porzione del territorio comunale perché vi potessero costruire senza il disturbo degli intralci costituiti dalla Valutazione d’Impatto Ambientale di legge (VIA) – e proprio nel luogo ch’era ancora sede dell’aeroporto Dal Molin con le sue strutture al 90% poi demolite – una nuova base di 800 mila metri cubi capace di dare alloggio a molte migliaia di soldati e di civili.
Fu allora che la questione degli “americani a Vicenza” acquistò rilevanza e visibilità nazionali. Ne seguì infatti una serie ininterrotta di polemiche e di fortissime opposizioni popolari contro quello che pudicamente veniva presentato come un ampliamento (quando invece la erigenda caserma distava da Camp Ederle più di 6 chilometri e peraltro anche meno di 2 chilometri in linea d’aria dalla Piazza dei Signori).
Le opposizioni furono corroborate da vistose manifestazioni di piazza soprattutto di donne munite di “pignatte” e cominciarono il 26 ottobre del 2006, giorno in cui la maggioranza di centro destra che governava allora il Comune avallò con due soli voti di scarto, e come non sarebbe stato in sua facoltà di fare, l’impianto del nuovo insediamento prevedendo una serie di compensi e di risarcimenti tutti poi venuti regolarmente a mancare.

Il corposo movimento di protesta appena nato ben presto si consolidò ottenendo di lì in avanti la solidarietà d’un gran numero di cittadini e di simpatizzanti che vennero da ogni parte d’Italia a Vicenza per dar vita il successivo 17 febbraio, in più di centomila, a una impressionante manifestazione di dissenso destinata a consacrare il ruolo anche mediatico del cosiddetto Presidio No Dal Molin, futuro protagonista, negli anni successivi, d’iniziative politiche non prive di conseguenze rilevanti sugli equilibri elettorali del capoluogo berico dove a Hüllweck subentrò, forte dell’appoggio del Presidio e alla guida di una giunta di centro sinistra, l’ex sindaco democristiano Achille Variati.

Abbandonati dal governo nazionale, a sua volta mutato, ossia da Romano Prodi che lo presiedeva e che il 16 gennaio del 2007 aveva dichiarato da Bucarest, con un “editto” subito definito “rumeno”, la fattibilità della nuova base, i vicentini furono abbandonati al loro destino di abitanti d’una città suddita, a curare i cui interessi veniva poi delegato da Prodi l’ex sindaco di Venezia ed europarlamentare Paolo Costa.
Questi, fin che durò in carica e cioè sino alla vigilia dell’apertura della base, agì in realtà da difensore dei soli interessi americani, si negò sistematicamente a ogni confronto con i rappresentanti delle istituzioni cittadine e provinciali e si dimostrò semmai fedele esecutore delle direttive USA e in specie, come rivelarono più tardi le intercettazioni di WikiLeaks, dell’ambasciatore Ronald Spogli invitando le autorità, così letteralmente disse, a “estirpare alla radice il dissenso locale“.
Ben pochi vicentini si schierarono a favore dell’immenso complesso costruito in spregio a ogni regola e norma italiana a cominciare dalla Costituzione (in violazione del suo articolo 11 che afferma che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa e come mezzo per risolvere controversie internazionali) e alle ignorate prescrizioni della Valutazione d’Incidenza Ambientale (VIA) con effetti negativi sulla viabilità e soprattutto sulla tenuta in punti oltremodo sensibili dell’intero sistema idrico vicentino posto al centro d’una zona cruciale di vaste risorgive (a causa della impermeabilizzazione della base in corso d’opera ne dipesero in buona parte già nel 2010 e nel 2011 una paio di rovinosi allagamenti per straripamento dei fiumi).

Solo un paio di gruppi minoritari e assai sparuti di sostenitori dell’impresa per motivi ideologici o anche, come nel caso dei dipendenti italiani degli USA o come la Cisl – unico sindacato ammesso dagli americani – di tornaconto particolare. Di benefici pari quelli favoleggiati d’un incremento dei posti di lavoro per gli italiani e di vendite per i commercianti in realtà non vi fu traccia e in extremis venne frustrato anche il tentativo di dar vita a un referendum consultivo, peraltro ammesso dal Tar, che a quattro giorni dal suo svolgimento su indicazione di un nuovo governo (retto da Berlusconi) venne bloccato d’imperio dal Consiglio di Stato nell’ottobre del 2008 (il referendum si tenne poi ugualmente ma in forma “autonoma” e portò alle urne più di un terzo dell’elettorato cittadino con quasi 25 mila votanti di cui 24 mila all’incirca contrari alla base).
Il movimento No Dal Molin sempre più radicalizzato e in sintonia con le rivendicazioni somiglianti di altri soggetti (dai No Tav ai centri sociali), entrò con propri rappresentanti in Consiglio comunale proseguendo, poi, per la sua strada di costante opposizione mentre anche in altri consessi non mancarono le voci dissenzienti rispetto alla cupidigia di servilismo nei confronti d’una iniziativa del tutto estranea alla Nato e promossa, come Africom, sotto esclusiva egida USA in concomitanza con l’inasprirsi delle guerre in Afghanistan e in Iraq, per motivi forse nemmeno di strategia bensì di pura logistica militare secondaria ovvero per la godibilità della “location” vicentina considerata apertis verbis preferibile ad altre per paesaggi, servizi e facile sfruttamento turistico a ristoro periodico dei reduci sconvolti dal Medio Oriente in preda a sindromi di ovvia gravità e meglio curabili, si ritenne, a Vicenza.

Qui, sia come sia, ma perdurando sorda e neanche tanto sottotraccia l’avversione dei cittadini a tanta intrusione, vennero fatti affluire i reparti USA provenienti da Bamberga e da altri punti della Germania nella primavera del 2013. Alle viste dell’inaugurazione della gigantesca base americana (una delle più grandi in Europa ma anche l’unica costruita non alle porte bensì dentro una città) un governo sempre meno interessato alla tutela della sovranità nazionale pensò di dover addirittura intitolare simbolicamente il nuovo manufatto bellico non più all’aviatore vicentino Dal Molin, ma a un partigiano cadorino/friulano delle Brigate Osoppo, Renato Del Din (medaglia d’oro al valor militare morto in combattimento nel 1944 ma anche figlio d’un generale del nostro esercito, Prospero, ai vertici dopo la guerra, secondo varie ricostruzioni, di Gladio e della connessa Operazione Stay Behind).
L’apertura in sordina ma non troppo (ubriaco fradicio il comandante della Base venne alle mani con i Carabinieri e con la stessa Military Police finendo destituito due giorni dopo) si verificò fra nuove proteste il 2 luglio del 2013 quando già il numero degli americani tra civili e in divisa, si stabilizzava intorno alle 15 mila unità, pari a più del triplo dell’insieme dei maggiori gruppi immigratori stranieri a Vicenza (serbi, rumeni e moldavi) così da sfiorare il 7% della popolazione.

Se a ciò si aggiungono l’arrivo presso la Caserma Chinotto, dove ha sede dal 2006 il loro Quartier Generale, di un migliaio di addetti (poliziotti, guardie civili, carabinieri ecc.) della cosiddetta Gendarmeria Europea (Europe Eurogendfor o EGF) e il fatto non secondario che assieme a Camp Ederle e alla nuova base ribattezzata Del Din sopravvivono nella cerchia suburbana e collinare a San Rocco Santa Tecla e al Tormeno-Fontega altri insediamenti americani di estremo rilievo attorno a Longare (come la base sotterranea USA Site Pluto dove sino ai primi anni novanta non meno che a Ghedi e ad Aviano venivano conservate numerose testate atomiche e quintali di plutonio) si capisce perché non sia né arbitrario né esagerato definire Vicenza città militare e, in questo senso, americana.