
In Italia i Centri antiviolenza si fondano su metodologie femministe di empowerment, basate sul concetto di non neutralità: chi accoglie non sta da parte, ma prende una posizione chiara a fianco della donna vittima, contribuendo a restituirle potere decisionale, informazioni, strumenti pratici per ricostruire la sua vita.
Tuttavia, per consolidare queste pratiche e renderle sempre più efficaci, è necessario un approfondimento accademico continuo sul profilo, la formazione e l’esperienza delle operatrici che lavorano in questi centri. In Europa, alcuni Paesi mostrano differenze interessanti nello sviluppo delle politiche antiviolenza: ad esempio, i Paesi Bassi presentano una forte attenzione istituzionale su alcune dinamiche, ma anche criticità significative che meritano un’analisi comparata.
Nei Paesi Bassi, il Consiglio d’Europa (GREVIO) ha recentemente richiamato il governo a rafforzare la prospettiva di genere nella legislazione e nelle politiche contro la violenza domestica. Nonostante un quadro normativo avanzato, manca ancora una copertura sufficiente di rifugi specializzati, e si registra una carenza strutturale nei posti letto per le donne vittime: il numero attuale di posti non raggiunge lo standard minimo stabilito dalla Convenzione di Istanbul. In più, sono attivi rifugi specialistici nei Paesi Bassi per vittime di pratiche culturali dannose quali il matrimonio forzato o la mutilazione genitale femminile, segno che il sistema olandese ha sviluppato una sensibilità specifica verso forme di violenza legate al background migratorio.
Tuttavia non tutto è roseo: secondo alcune fonti, pochissime vittime di violenza domestica nei Paesi Bassi si rivolgono ai servizi ufficiali. Questo suggerisce che, pur esistendo infrastrutture, le barriere all’accesso, che possono essere culturali, di paura, di fiducia, restano molto alte. Inoltre, la cronica carenza di posti nei rifugi ha spinto alcune donne a cercare alloggio temporaneo in hotel, una soluzione dubbiamente sicura perché priva di adeguate misure di protezione. Questo contrasto evidenzia un punto di forza ma anche un limite: i Paesi Bassi hanno sviluppato politiche sofisticate e orientate alle vulnerabilità più specifiche, ma l’implementazione pratica resta difficile e disomogenea. Da parte italiana, uno studio comparativo più sistematico potrebbe aiutare a capire quali pratiche andrebbero rafforzate (come l’offerta di rifugi specializzati) e quali ostacoli empirici rimangono da affrontare.
Sul piano teorico, il modello di intervento dei centri antiviolenza italiani trae linfa anche da pensatrici e sociologhe che hanno elaborato teorie fondamentali su potere, genere e violenza. Una figura emblematica è la sociologa Eva Lundgren, nata il 24 novembre 1947 a Flekkefjord (Norvegia), ma attiva soprattutto in Svezia, dove è stata professoressa di sociologia all’Università di Uppsala. Lundgren è nota soprattutto per aver sviluppato il concetto di “processo di normalizzazione” della violenza: secondo la sua teoria, le donne che subiscono abusi tendono a interiorizzare la visione dell’aggressore, accettando gradualmente comportamenti violenti come “normali” o inevitabili. Questo meccanismo giustifica pienamente l’approccio non neutrale nei centri antiviolenza, perché implica che la sola protezione non basta: serve un intervento che riconosca come strutturale il potere dell’abusante e aiuti la vittima a ricostruire una narrazione alternativa della sua esperienza.
Tra le sue pubblicazioni più influenti c’è il volume Slagen dam. Mäns våld mot kvinnor i jämställda Sverige – en omfångsundersökning (2001), realizzato insieme a Gun Heimer, Jenny Westerstrand e Ann-Marie Kalliokoski, ed edito da Brottsoffermyndigheten e l’Università di Uppsala. In esso Lundgren e le sue colleghe evidenziano, attraverso un’indagine su scala nazionale, che la violenza maschile contro le donne è presente in tutti i ceti sociali e che quasi la metà delle donne intervistate (46 %) ha subito violenza da un uomo dopo i 15 anni. Un’altra pubblicazione significativa è The Process of Normalising Violence (2004), edita da ROKS (l’organizzazione svedese delle case rifugio), in cui Lundgren teorizza in modo più esplicito il meccanismo psicologico e socioculturale con cui la violenza si interiorizza e diventa accettata.
L’opera centrale di Lundgren è però Våldets normaliseringsprocess, pubblicata nel 2004 da ROKS (l’Organizzazione nazionale svedese per i rifugi per donne) con l’intento di elaborare teoricamente e empiricamente il suo modello di come la violenza venga gradualmente compresa e accettata dalle vittime nella loro vita quotidiana. In questo libro, la studiosa sostiene che il processo di normalizzazione non è solo psicologico ma anche socioculturale: non si tratta semplicemente di una donna che “si abitua” alla violenza, ma di un fenomeno di definizione del significato della violenza attraverso il potere e le relazioni di genere. Secondo lei, i maltrattanti non usano la violenza solo come espressione di rabbia o impulso, ma come mezzo per consolidare un potere – economico, emotivo, simbolico – all’interno della relazione.
Alla luce di queste teorie, il lavoro delle operatrici nei centri antiviolenza porta con sé un rischio potenziale: se da un lato l’empowerment e la non neutralità sono punti di forza, dall’altro le operatrici stesse possono interiorizzare stereotipi o visioni paternalistiche, anche inconsciamente. È possibile che, senza una formazione critica e continua, alcune operatrici finiscano per interpretare le donne vittime secondo categorie predefinite (la “vittima passiva”, la “donna fragile”, la “dipendente”), invece di riconoscere la complessità, la dignità e l’agency di ciascuna donna.
Inoltre, in assenza di percorsi di reclutamento trasparenti e rigorosi, la selezione delle operatrici può risentire di favoritismi o di una scarsità di diversità nei profili professionali. Per questo sarebbe utile, in Italia, promuovere concorsi pubblici per l’accesso alle professioni nei centri antiviolenza: un bando pubblico, a livello nazionale o regionale, potrebbe garantire non solo standard minimi di formazione, ma anche criteri meritocratici e trasparenti nel reclutamento. Ciò favorirebbe una composizione più equilibrata delle équipe, con personale eterogeneo per formazione, background culturale, genere e competenze, ed eviterebbe che il lavoro nei CAV resti prerogativa di pochi ambiti non regolati.
Infine, l’Italia ha bisogno di investire nella ricerca accademica che indaghi il background culturale e l’operato delle operatrici dei Centri antiviolenza: studi sociologici, etnografici e psicologici che esplorino chi sono queste donne che lavorano nei CAV, quali percorsi formativi hanno seguito, quali ostacoli incontrano, e in che modo la loro esperienza influisce sulla qualità dell’accoglienza e del sostegno. Solo comprendendo a fondo la professionalità delle operatrici potremo rafforzare il modello dell’empowerment non neutrale, prevenire derive paternalistiche e garantire una rete antiviolenza sempre più efficace e radicata.
(Di Yuleisy Cruz Lezcano)
Fonti
Lundgren, Eva. The Process of Normalising Violence. Riksorganisationen för kvinnojourer och tjejjourer i Sverige (ROKS), 2004.
ROKS. Våldets normaliseringsprocess, nyutgåva (edizione aggiornata), ROKS, 2024.
Lundgren, Eva & Westerstrand, Jenny. “Comparing four Prevalence Studies on Violence Against Women: Main results, methodology and analytical approaches.” Dipartimento di Sociologia, Università di Uppsala.


































