“Tra urne, schede e ricordi: perché non ho mai smesso di votare”

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Delia, Paola Cortellesi, va a votare in _C'è sempre domani_
Delia, Paola Cortellesi, va a votare in _C'è sempre domani_

(Articolo su urne, schede e ricordi da VicenzaPiù Viva n. 303,

Non è nostalgia, ma senso civico. Una vicentina racconta quarant’anni di appuntamenti con la democrazia, tra entusiasmo, disillusione e il dovere di esserci comunque. Come ci insegna Delia – Paola Cortellesi dal 1946…

Votare? Bisogna. Come lavorare, andare a scuola, stare con le persone, avere vita sociale.
Da vicentina media – anzi in questo caso ci sta più un “di mezza età”, tra il boomer e la generazione X – ho sempre considerato un dovere andare alle urne. Da quando ho
l’età per votare credo di non aver mai saltato una tornata… forse un ballottaggio per influenza, ma non ne sono certa.
Del resto, ho seguito l’esempio dei miei genitori, appartenenti alla generazione per la quale il diritto di voto è stato una conquista, e una volta ottenuto, chi era così sciocco da non approfittarne? Ricordo che da bambina, quando abitavo nella ridente Altavilla Vicentina, ogni tanto vedevo uscire i miei genitori in coppia a metà pomeriggio di domenica. “Dove andate?” chiedevo, e mi rispondevano “A votare”.
Non capivo bene che cosa volesse dire, però mi sembrava una cosa importante. Come fare la comunione in chiesa. Che non vedevo l’ora di ricevere il sacramento per poterla fare anch’io. Per votare non avevo la stessa smania, però capivo che era una cosa seria.
A casa in realtà non si parlava molto di politica. La mamma era tendenzialmente democristiana, il papà aveva simpatie per il partito socialista, quello delle origini.

Elettrice e scrutatrici donne a Vicenza
Elettrice e scrutatrici donne a Vicenza

Ogni tanto, soprattutto sotto elezioni, chiedevo spiegazioni, su destra e sinistra e sui vari partiti. Era soprattutto mio papà che me ne parlava. Aveva le sue idee e me le esponeva tranquillamente, ma non ha mai tentato di influenzare il mio modo di pensare, né prima che cominciassi a votare né, tantomeno, dopo.
Anche la preparazione al voto aveva il suo fascino, con le lettere e i volantini dei vari candidati che continuavano ad arrivare (uno dei miei primi lavoretti retribuiti da maggiorenne era stato proprio imbustare lettere per un candidato locale), e le tribune politiche che invadevano i palinsesti televisivi, cosa in realtà per me un po’ fastidiosa perché magari saltava qualcuno dei miei programmi preferiti… Ricordo ancora l’emozione quando per la prima volta arrivò anche il certificato elettorale col mio nome. Fino al 2000, infatti, nel mese precedente la scadenza elettorale un messo comunale passava di casa in casa a consegnare quel documento a tutti i componenti della famiglia con diritto di voto.
Adesso il sistema è cambiato, c’è la tessera elettorale, molto più pratica. Consegnata a domicilio solo la prima volta (almeno nel duemila me la portarono a casa, oggi non so se funzioni ancora così), vale per 18 consultazioni, poi al rinnovo procede direttamente l’elettore: quando ha finito gli spazi, si reca all’ufficio elettorale del proprio comune per richiederne una nuova.
Il prossimo passaggio sarà probabilmente fare tutto per via telematica, anche se temo la complessità delle procedure, perché ogni volta che si tratta di automatizzare un servizio entra subito in funzione l’UCAS, Ufficio Complicazioni Affari Semplici…

In ogni caso, ribadisco, raggiunta la maggiore età nel 1985, ho sempre votato, anche ai referendum, tutti, anche i più lontani dal mio interesse. Soprattutto, sono andata a votare anche se volevo votare no.
Non ho mai accettato il concetto del “non andiamo a votare così invalidiamo la consultazione”.
Che senso ha? Se sei convinto delle ragioni del no, a votare ci vai eccome. Ricorderò male, ma il referendum sull’abrogazione del divorzio fu una vittoria del no, non del non voto, e a votare ci andò oltre l’80 per cento della popolazione.
Certo, il tema era particolarmente sentito, come poi per i referendum sull’aborto, sull’ergastolo, sul nucleare. Ma hanno raggiunto il quorum anche consultazioni su temi più specialistici: non credo che nel 1993 tutta Italia sapesse esattamente che cosa fosse il Ministero delle Partecipazioni Statali o che tutti capissero il senso di un quesito come “Abrogazione delle norme per le nomine ai vertici delle banche pubbliche”. Si dava semplicemente molta più importanza alla partecipazione al voto.
Dal terzo millennio in poi, i referendum che hanno raggiunto il quorum sono stati sempre meno, anzi, negli ultimi dieci anni forse solo quello consultivo per l’autonomia del Veneto. Nemmeno gli ultimi relativi al lavoro hanno raggiunto il quorum, eppure il tema dovrebbe essere di interesse generale, e pure urgente. Del resto, anche la partecipazione alle elezioni va calando.
Forse anche perché in Italia si vota troppo. Io ho già consumato due tessere elettorali, vuol dire 36 volte al voto in 25 anni, cioè in media circa 3 volte ogni due anni. Considerando che le scadenze naturali per Parlamento italiano, Parlamento europeo, rinnovi di Sindaco e Presidente della Regione (e fino a una decina d’anni fa si votava pure il Presidente della Provincia) sono in media ogni quattro o cinque anni, e che in più di qualche occasione due consultazioni diverse sono state sovrapposte (i famosi election day), è decisamente una media importante visto che alle scadenze naturali si aggiungono quelle per scioglimenti delle Camere e referendum vari. Non sono un’esperta, ma non credo che nel resto d’Europa si vada a votare così spesso. Credo che anche questo abbia contribuito a creare una certa stanchezza e una certa distanza tra le persone e la vita politica.
Però forse c’è dell’altro. Quando ho cominciato a muovermi nel mondo dell’informazione, intorno agli anni Novanta, i primi articoli di un certo peso che ho scritto erano stati proprio sulle elezioni.
Interviste ai candidati, reazioni dei partiti allo spoglio delle schede… Ovviamente non ero in grado di analizzare l’andamento del voto, però una cosa la ricordo bene: in quegli anni c’era una consapevolezza politica molto superiore a quella di oggi.
C’erano tanti giovani che frequentavano i partiti, proprio nel senso fisico delle sedi, e a livello nazionale le figure di riferimento, che piacessero o no, erano tridimensionali, non figurine più o meno urlanti che fanno campagna elettorale su Tik Tok. Soprattutto, i partiti avevano un’identità precisa, le idee politiche erano… politiche, avevano radici storiche e culturali, non partivano da considerazioni sul sociale o sull’ambiente o sulla salute. Che, intendiamoci, sono valori importanti per chi governa, ma appunto sono valori, sono ideali, e soprattutto sono concetti sui quali, almeno a parole, la pensiamo tutti allo stesso modo
(vabbè, a parte qualche capo di stato straniero dalle idee balzane, ma quello è un altro discorso). Fare politica è altro. Detto questo, io a votare ci vado comunque. E continuerò ad andarci. Perché, come ci insegna Delia, Paola Cortellesi in “C’è ancora domani”, qualcuno può provare a privarti di questo diritto ma non deve riuscirci.