Caterina Piovene, illustre vicentina del Cinquecento, nipote di Luigi Da Porto

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caterina piovene
B. Montagna, Santa Maria Maddalena tra i santi Girolamo, Paola (?), Monica e Agostino, 1514-1515.

Da Storie Vicentine la storia di Caterina Piovene, che rientra fra le sconosciute illustri vicentine del Cinquecento.

Nel novero delle sconosciute vicentine illustri rientra a pieno titolo Caterina Piovene. A trarla da «un oblio di oltre tre secoli e mezzo, e rinfrescare la memoria di una donna d’illustre famiglia, che all’avvenenza, e ai doni fortuiti della persona seppe accoppiare una rara cultura di spirito e un’interezza di vita degnissima d’ogni encomio», fu don Giuseppe Rossi nell’opuscolo gratulatorio – pubblicato nel 1873 in occasione delle nozze di Giustino
Valmarana con Livia Piovene – nel quale sono raccolte le poche informazioni pervenuteci.

Nata tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento da Tomaso, membro della famiglia dei Piovene alle barche, così chiamati perché fecero costruire, su progetto di
Andrea Palladio, «sopra il Bacchiglione al porto delle barche, un superbissimo palazzo d’imperatoria spesa, sì per la struttura sua fondata sul letto del fiume [Bacchiglione] di vive pietre, come per la forma d’architettura eccellentissima», purtroppo distrutto nell’Ottocento
per costruirvi l’ex macello, ora in stato di desolante degrado. Pure la madre, Chiara Porto, era di nobili origini: la famiglia risulta attestata nel vicentino sin dal XII secolo.
Non ci sono giunte notizie sulla giovinezza di Caterina e nemmeno sui suoi studi. Di certo essa dovette ricevere un’educazione degna del rango, favorita dal milieu familiare. Il nonno Alvise, infatti, era dottore in legge e sedeva nel Collegio dei giudici; il fratello Leonardo
era oratore chiarissimo per eloquenza e dottrina, lo zio paterno Nicolao è ricordato come professore di lettere, lo zio materno Luigi da Porto è l’autore della celeberrima novella Giulietta e Romeo.

Lettere di M. Pietro Bembo cardinale,vol. terzo, Milano 1810.
Lettere di M. Pietro Bembo cardinale,
vol. terzo, Milano 1810.

Si sa con certezza che ella si unì in matrimonio il 9 marzo 1522 – portando in dote mille ducati d’oro – con Galasso Monza, figlio di Giacomo, anch’egli appartenente ad altra nobile
famiglia vicentina. Le scarse notizie su Caterina – riportate da Rossi – pervengono soprattutto dal mantovano Fulvio Pellegrino Morato, grammatico, maestro di scuola pubblica e precettore prima a Ferrara e poi, dal 1532 al 1539, a Vicenza, quale pubblico maestro di latino, chiamato per interessamento di Giangiorgio Trissino, che lo stimava
perché uomo «di sommo merito e di grande letteratura». Questo Morato frequentò Caterina e la sua casa, tanto da dedicarle, nel 1533, una elegia compilata in lingua latina – ristampata nel 1835 in occasione delle nozze fra e Domenico Menilupi di Soragna e Giustina Piovene – nella quale definisce la Nostra «matronarum omnium tam pudicissima quam pulcherrima» ovvero «la più virtuosa e la più bella fra tutte le donne sposate» – nonostante avesse probabilmente già passato la trentina: un’età allora avanzata per una donna.
Il componimento di Morato fornisce un ritratto celebrativo delle molteplici doti di Caterina. Che eccelleva «nella cortesia delle maniere, nella gravità del contegno, nel senno de’ suoi giudizi; disinvolta ma non leggera, gentile senza affettazione, amabile senza sdolcinatezza,
la sua conversazione era sobria, modesta e ad un tempo erudita e feconda.
Portata da felice natura alle arti dell’armonia cantava con accento melodioso, rapiva colla grazia della sua voce, sposava i suoi canti all’apicordo10 e al liuto.
Aveva disposizione al disegno e alla danza e perizia somma in qual si voglia più nobil uso dell’ago».

B. Montagna, Santa Maria Maddalena tra isanti Girolamo, Paola (?), Monica e Agostino, 1514-1515.
B. Montagna, Santa Maria Maddalena tra i
santi Girolamo, Paola (?), Monica e Agostino,
1514-1515.

Morato indugia anche nel descriverne l’aspetto fisico: «… trecce bionde o sparse all’aria senz’arte, o composte in anella fluenti dopo le spalle… la fronte sede d’alto intelletto, gli occhi che folgorano a modo di stelle, il vermiglio delle guance, il corallo delle labbra, il collo di cigno… coll’incesso d’angelica forma coll’accento che suona ben altro che voce umana».
Affascinato dalla insistita descrizione di tanta bellezza, Rossi azzarda un’ipotesi, che merita di essere riportata integralmente e che la critica più autorevole cita ma non avalla: «Un bel mattino entrando nella Chiesa di S. Corona, l’occhio mi corse subito alla magnifica tela
che rappresenta la Maddalena, stupendo lavoro di Bartolomeo Montagna [che] adorna il secondo altare a sinistra, che fu eretto da Pietra Porto bisavola di Caterina; e mi balenò per la mente un’idea che ho vagheggiata un’istante, come un tesoro che avessi scoperto, un’idea forse bizzarra, forse lontana a gran pezza dal vero, ma che mi ha soggiogato, e che
non resisto alla tentazione di buttar giù in queste pagine. Fissando lo sguardo in quella Santa ho ragionato in quel momento così: il Montagna era in molta dimestichezza colla famiglia Piovene, e anzi volle presente al suo testamento il Nob. Nicolao zio di Caterina; egli usava in quella casa e perciò vedeva spesso la giovanetta; costei era la più graziosa e
incantevole delle fanciulle dell’età sua: quella tela… è… dipinta dal Montagna negli ultimi anni della sua vita, che si chiuse nel 1523, quando appunto Caterina era in tutto il prestigio della sua bellezza: gli artisti anche sommi, ove possano, pigliano sempre gli esempi da
una bella natura vivente: quella Maddalena non pure si scosta di lunga mano da tutti i tipi di donna che il Montagna soleva rappresentare ne’ suoi dipinti, ma è perfino dissimile dalla Maddalena dello stesso autore, che si conserva nella nostra pubblica Pinacoteca; al Museo non trovi che una donna volgare, a S. Corona vi ha qualcosa di solenne che arieggia di
Dama patrizia; finalmente quella figura di Maddalena risponde a capello, o certamente
ha riscontri notevolissimi colla pittura, che fa il Morato di Caterina: chiome bionde, occhi azzurri, fronte larga e serena, guance leggermente soffuse di rosa, forme alquanto rotonde, lineamenti spiccati, portamento maestoso.
Sarebbe impossibile che nella faccia di quella Santa il Montagna ci avesse conservata l’immagine di Caterina?». E saggiamente conclude Rossi: «Abbandono
questo sogno di fantasia al giudicio del benigno lettore».
Essendo io uno di questi, mi permetto di osservare che le chiome dipinte da Montagna non sono bionde (al più, castano-chiare), così come gli occhi non sono azzurri. Ma tant’è: fantasticare non costa nulla.

B. Montagna, Santa Maria Maddalena tra isanti Girolamo, Paola (?), Monica e Agostino, 1514-1515.
B. Montagna, Santa Maria Maddalena tra i
santi Girolamo, Paola (?), Monica e Agostino,
1514-1515.

Oltre al bene effimero della bellezza, Caterina Piovene possedeva non comuni doti intellettuali e, particolarmente, poetiche, sollecitate anche da un humus particolarmente felice. Vicenza, infatti, vive nel Cinquecento la sua stagione d’oro pure sotto l’aspetto culturale. È l’epoca delle accademie e dei luoghi di incontro degli amanti delle Muse. Lampertico ricorda gli orti di Giovambattista Graziani Garzadori «forse dietro
alle [loro] case, di qua del fiume Retrone [frequentate da] alcune delle più nobili donne della Città. Non so nemmeno, se debbasi pigliare alla lettera, che le fanciulle accompagnassero alla lira versi latini, e il poeta latinamente rispondesse in linguaggio, che per le donne che lo ascoltavano non riusciva latino».
Altro famosissimo cenacolo di illustri ingegni fu l’accademia che si riuniva, fin dai primi anni del Cinquecento, intorno alla figura di Giangiorgio Trissino presso la sua villa di Cricoli. Superata la metà del XVI sec. «si trovarono a coesistere in Vicenza tre accademie: i Secreti, gli Olimpici e i Costanti», delle quali è giunta sino a noi solamente l’Accademia Olimpica, fondata nel 1555. Tutti circoli nei quali convitarono i più lucidi ingegni dell’epoca.
Molte furono le donne che in quel secolo si dedicarono allo scrivere. E non mancarono loro
nemmeno gli estimatori. Tra i quali il vescovo di Saluzzo Francesco Agostino Della Chiesa, autore del Theatro delle donne letterate con un breve discorso della preminenza e perfettione del sesso donnesco, pubblicato a Mondovì nel 1620, opera non propriamente gradita alla Chiesa, nella quale vengono ricordate le vicentine Dorotea Thiene e Maddalena Campiglia. Non purtroppo, Caterina Piovene. La quale poetessa fu certamente.
Lo sappiamo grazie ad una serie di testimonianze. Anzitutto il solito Morato ricorda che le
sue composizioni «erano ispirate da Febo e dalle Muse23». Il giudizio più qualificato e autorevole viene però da Pietro Bembo, che, rispondendo da Padova il 23 gennaio 1534 ad una lettera inviatagli dal nostro concittadino Francesco Malchiavelli o Malchiavello o Macchiavello, grammatico e pubblico lettore dal 1545 al 1548, così si espresse nei confronti di Caterina Piovene: «Ho letto con molto piacer mio i tre Sonetti mandatimi da voi. Magnifico Compare mio, ma sopra gli altri quello, che vi scrive la Signora Caterina da Piovene. La quale non può esser se non valorosissima, se quel Sonetto è suo, come Vostra Signoria afferma. Il quale nel vero è tanto bello, che mi fa maravigliare grandemente. E parmi che la Marchesa di Pescara sia non solamente a Napoli, ma eziandio nella vostra città. Dissi Marchesa di Pescara, perciò che è quella, che ha ora il primo grido…».
Va detto che la marchesa di Pescara ricordata dal Bembo è in realtà Vittoria Colonna, una delle principali poetesse del Cinquecento, attorno alla quale si costituì uno dei maggiori circoli culturale e artistici del Rinascimento.
Non rimane che sperare che un felice ritrovamento in qualche ancora inesplorato archivio
familiare ci faccia finalmente conoscere i versi di questa nostra concittadina del Cinquecento.

Di Giorgio Ceraso da Storie Vicentine n.15-2023.