Ibrahim, Doup e gli altri. Il volto “laureato” dei corridoi umanitari

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Ibrahim è il più loquace, dal sorriso sicuro. Eritreo, 26 anni, ha due lauree: lingue e letteratura straniera e business e management. Ha trascorso gli ultimi 5 anni nell’Aysaita Camp, nell’omonima città, a 800 km dalla capitale Addis Abeba, uno dei tanti campi profughi in Etiopia. È simpatico, socievole. Provenire da un’ex colonia italiana lo fa sentire un po’ a casa. L’italiano ce l’ha nell’orecchio. Accanto a lui c’è Duop, 27 anni, sud sudanese. Posato, composto, preparato. Per tre anni è stato ospitato nel Tsore refugee camp ad Asossa nella parte est dell’Etiopia. I successivi tre li ha trascorsi ad Addis Abeba dove ha conseguito la laurea in Economia e finanza lavorando la sera. Completano il quartetto altri due giovani eritrei: un altro Ibrahim, ventenne, fresco di superiori e Mohammed, 25 anni, laureato in management. 

Siamo a Quinto Vicentino, in un appartamento gestito dalla Caritas diocesana vicentina. I quattro ragazzi, arrivati in provincia di Vicenza i primi di dicembre, sono il volto pulito e intelligente del progetto “Protetto. Rifugiato a casa mia – Corridoi umanitari”, giunto alla seconda edizione. Promosso dalla Conferenza Episcopale italiana, agisce attraverso Caritas Italiana, Fondazione Migrantes  e Comunità Sant’Egidio ed è interamente finanziato dall’8×1000 della Chiesa cattolica e da una raccolta fondi della Comunità Sant’Egidio. Il Governo ci ha messo il sigillo, ma neanche un euro. «Il primo corridoio tra il 2017 e il 2019 permise di far entrare legalmente in Italia 500 persone in 2 anni. Il secondo, siglato nel maggio 2019, prevede l’accoglienza di 600 profughi provenienti dai campi in Niger, Giordania ed Etiopia in due anni» spiega Elisa Carollo, referente Caritas del progetto con noi seduta in cucina. A fine 2019 nella nostra diocesi sono arrivate altre sette persone eritree: una famiglia con due bambini piccoli a Malo e una mamma con due ragazzine nella parrocchia di San Pio X a Vicenza. Anime fortunate, selezionate tramite colloqui tra migliaia di rifugiati in Etiopia. «L’inferno cominciò nel 2013 – racconta Duop con un buon inglese -, mio padre e mio fratello minore si trovavano per lavoro a Juba, capitale del Sud Sudan. I militari di etnia Dinka entrarono nelle case di notte, spararono all’impazzata tagliando la testa a tutti quelli di etnia Nuer di cui faccio parte. Mio padre fu ucciso. Io mi trovavo con mia madre più a nord, a Malakal, la nostra città d’origine. Lavoravo per una compagnia petrolifera, ero ben retribuito, avevo una fidanzata. Lasciai tutto e mi misi in cammino con tantissime persone della mia etnia verso est. Superammo il confine, un’Ong si prese carico di noi e venimmo smistati nei tanti campi profughi etiopi. Un viaggio di tre settimane: camminavamo di notte per non farci scoprire dagli elicotteri, di giorno ci nascondevamo». In Etiopia la retribuzione media mensile è di 3500 birr, moneta locale: convertitore di valuta in mano, circa 100 euro. «La mia università privata mi è costata 2000 birr» spiega Doup. Circa 60 euro. Nei campi in Etiopia i giovani hanno dovuto dare il loro contribuito: «Ognuno doveva provvedere in qualche modo alla sussistenza del campo – spiegano -. Chi era addetto ai negozi, chi faceva il pane, chi puliva». Ora, arrivati in Italia, i sogni sono quelli di tutti i 25enni: un lavoro, una fidanzata, una casa. «Sono contentissimo di essere qui – interviene Ibrahim-. Conosco già un po’ la vostra cultura, la vostra storia, in Eritrea avete portato fabbriche, lavoro, benessere. Il corridoio umanitario mi sta dando la possibilità di cambiare la mia vita e desidero sfruttarla al meglio. Voglio imparare la vostra lingua, inserirmi in questa società e dimostrarvi che sono una persona per bene, che amo studiare. Chi dorme non piglia pesci».

Le aspettative tuttavia si scontrano con la burocrazia: «I ragazzi hanno presentato domanda di protezione internazionale e sono in attesa del primo permesso di soggiorno e della tessera sanitaria – spiega la referente Caritas -,  spero arrivino nei prossimi giorni». Il progetto “Protetto. Rifugiato a casa mia – Corridoi Umanitari” è finanziato con 15 euro al giorno per ogni profugo. I ragazzi ricevono un pocket money mensile per le esigenze personali. «Cerchiamo di dare ai ragazzi la possibilità di potersi inserire gradualmente nel nostro territorio, sostenendoli nei loro progetti di vita assieme alla preziosa presenza di un gruppo di volontari che, con semplicità, sanno farsi prossimi e mettersi al loro fianco» dice Elisa. «Parlo con estrema franchezza – interviene Ibrahim -:stare qui senza volontari sarebbe stato come essere ciechi. In un mese abbiamo già conosciuto molte persone, visitato più volte il centro di Vicenza. Abbiamo festeggiato il Capodanno in piazza a Malo ballando con sconosciuti che ci hanno ben accolto». Al tavolo, con noi, siedono Valeria, la coordinatrice del gruppo di volontari, e Cristina, una di loro. «In tutto siamo una decina – spiega Valeria -. Obiettivi primari: studio della lingua italiana e uscite per creare indipendenza negli spostamenti». Entrambe le donne sono alla terza esperienza: «Ogni volta è diverso perché ci troviamo davanti persone differenti – continua Valeria -. È un’esperienza unica, arricchente che non tutti hanno la possibilità di vivere. È una responsabilità, siamo degli esempi e dobbiamo dimostrarlo. È facile dire che siamo tutti uguali, ma è necessario calarsi nella realtà che non è sempre rose e viole. Dobbiamo seguire il cuore e, come spiega don Luigi Ciotti, prima che all’integrazione dobbiamo pensare all’interazione. Aprire il cuore, ascoltare questi ragazzi, entrare – per quanto è possibile – in empatia. Parlano tutti un buon inglese, quindi è più semplice». «Sono consapevole della fortuna che ho avuto- continua l’intraprendente Ibrahim -. In Etiopia e nel mondo ci sono ancora tante persone che aspettano. La cosa più importante è che siamo arrivati in modo legale, non sopra a dei barconi». «La via giusta è quella legale, insieme possiamo fare sempre di più, spero che esperienze come questa siano gocce d’olio che si allargano. I corridoi umanitari  sono un bellissimo esempio: la società civile si è mossa prima dei Governi» conclude Cristina. E a proposito di esempi. «I corridoi umanitari dimostrano come il fenomeno delle migrazioni si possa gestire in modo dignitoso e legale . I percorsi personalizzati di inserimento sociale e lavorativo permettono un’integrazione reale, in tempi congrui, con modalità rispettose delle ferite di chi chiede accoglienza per motivi umanitari. Si sta rivelando un’esperienza positiva, comprovata dal grande coinvolgimento dei volontari, che ringrazio personalmente» conclude don Enrico Pajarin, direttore di Caritas diocesana.