Don Gianantonio Urbani: «Il Gesù ebreo, illumina la conoscenza del Cristo»

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L’ebraicità di Gesù è uno degli elementi decisivi per conoscere di più e meglio il Cristo. Di questo abbiamo parlato con don Gianantonio Urbani, 49 anni, prete diocesano, da dieci anni impegnato in Terra Santa come studioso (è docente di archeologia biblica e topografia di Gerusalemme allo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme) e guida dei pellegrini accompagnati dall’Ufficio pellegrinaggi diocesano. Lo raggiungiamo al telefono mentre sta completando le didascalie relative al sito di Magdala e in particolare di alcune vie che percorrevano la Galilea. «Conoscere profondamente le radici ebraiche di Gesù mi ha portato una maggiore luce sulla sua persona – ci dice-. Per me è stata ed è una luce enorme e che condivido con le molte persone che incontro e che accompagno in Terra Santa». 

Don Gianantonio. cosa significa questo concretamente?

«Quando, con l’Ufficio pellegrinaggi, accompagniamo le persone in Terra Santa cerchiamo di aiutarli a mettersi sulla strada di una persona che era ebrea e a seguire la strada della Via. Gesù, infatti, inaugurò proprio questa Via che poi è Verità e Vita, secondo la sua autodefinizione. Il cristianesimo, quindi, più che una religione è una via nella quale Gesù ha aperto questa strada».

In tale prospettiva che rilevanza ha il dialogo ebraico – cristiano? 

«È fondamentale perché la forza della via cristiana è quella di aver seguito e ancora di seguire le orme di Gesù Cristo, l’inaugurazione di questa via per le strade della Galilea fino a Gerusalemme e gli estremi confini della terra che ancora parlano al cristiano. Il riferimento alla Via aperta da Gesù aiuta molto a tenere il filo con la sua ebraicità, con il suo essere rabbino, maestro delle scritture».

Forzando potremo dire che non ci sarebbe il cristianesimo senza l’ebraismo? 

«C’è una radice Santa di Israele che non possiamo dimenticare. In tal senso l’invito a leggere il Nuovo Testamento va fatto alla luce del Primo Testamento perché tutta la Scrittura inaugurata da Gesù, soprattutto quella della Torà e portata a compimento dagli evangelisti, va ad ampliare questo orizzonte di senso che è il cristianesimo».

Che legame sentiamo, dunque, di avere come cristiani nei confronti degli ebrei? 

«Abbiamo un richiamo all’esercizio della Promessa. Il dialogo, inteso come “parola che passa attraverso”, deve essere riscoperto proprio nella promessa di Israele, come segno per tutti i popoli e per noi con Gesù come il maestro, il segno che è diventato per noi carne». 

Anche la prossima Giornata dedicata al dialogo tra le due religioni ci ricorda che il suo sviluppo passa necessariamente per le Sacre Scritture. Come?

«Certamente le Sacre Scritture vanno lette nella loro globalità, e non solo considerando alcune pagine. E poi occorre considerare Gerusalemme, il cuore della questione, il luogo nel quale si esercita l’ascolto. La Città Santa, proprio perché immagine di quella Celeste dove ci sono ancora ebrei, cristiani, mussulmani ed esponenti anche di altre religioni è ancora la città in cui si fa esperienza delle nostre fedi. È importante per questo mantenere questa identità. È auspicabile poi un’assiduità maggiore alle Scritture del Primo Testamento. Quando leggiamo un testo dei Vangeli ci sono molti riferimenti al Primo Testamento. Se prendiamo per esempio l’evangelista Matteo questo va letto alla luce delle Scritture del Primo Testamento. Esso, infatti, aiuta a recuperare le categorie dell’Alleanza, della Promessa di Dio di eternità che è anche oggi continuamente in atto».

Lei vive sei mesi all’anno in Israele. Che rapporto ha con gli ebrei? 

«Una cosa che ho sperimentato più volte è che quando si parla di dialogo nella Città Santa, questo significa come prima cosa per ciascuno fare bene il compito che ha ricevuto, essere fedeli alla propria identità. In questo senso il dialogo parte dal riconoscimento dell’altro. Entrare in dialogo è un camminare tutti nella stessa direzione che è quella di Dio. Poi va detto che è difficile a Gerusalemme fare l’esperienza dell’insieme perché davvero c’è molta diversità. Ho amici ebrei come pure mussulmani, però ciascuno rispetta la propria via. La stessa città di Gerusalemme è testimone da sempre di questa diversità». 

Quanto un dialogo possibile passa per lo studio scientifico?

«Dove c’è lo studio scientifico della Scrittura piuttosto che dell’archeologia o della storia o geografia e dove questa ricerca scientifica non è viziata da intendimenti politici questa possibilità è evidente. Allo Studium Biblico lavoriamo con studiosi delle Università ebraica, israeliane, islamiche. I legami che si creano a livello scientifico sono straordinari perché vuol dire riconoscere scoperte come risultato di  percorsi diversi. La scientificità garantisce un possibile dialogo con chi è di un’altra religione». 

Oltre agli studiosi, lei incontra anche molti credenti diciamo “normali”, delle nostre comunità. Quanta consapevolezza c’è circa le radici ebraiche del nostro credere?

«Molto poca. Queste radici vengono colte con grande difficoltà. Il pellegrinaggio, in questo senso, è uno strumento che ci aiuta in tale direzione: accompagnando le persone in terra di Palestina si riconosce da dove veniamo e dove andremo. Ma questo ovviamente non basta. Serve di più». 

Cioè?

«Sono convinto che come comunità cristiana e come preti dobbiamo attrezzarci dal punto di vista dell’accompagnamento spirituale. Non è importante solo il primo annuncio che ti entusiasma, ma è aiutare poi a trovare questo nella vita quotidiana, nella concretezza come insegnava Gesù».