Il presidente dell’Abi Antonio Patuelli, quarto round del politico passato a banchiere

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Patuelli
Patuelli

Una volta era un posto ambito, uno degli snodi cruciali del capitalismo di relazione italiano. Oggi non c’è piu competizione per la guida dell’Associazione delle banche italiane (Abi), il potere è altrove, gli interessi delle grandi banche sono lontani dall’Italia e quelle medio-piccole hanno come massima ambizione la sopravvivenza, non certo la guida del Paese. La Confindustria delle banche è talmente spompata da aver chiesto il quarto mandato consecutivo al suo presidente, Antonio Patuelli, ultimo superstite della schiatta liberale, passato indenne alle macerie della Prima Repubblica facendosi banchiere.

Forse si ispira a Franklin Delano Roosevelt: il presidente americano decise di violare la regola non scritta stabilita da George Washington di non superare i due mandati (ne fece quattro anche lui). Patuelli aggira la regola stabilita da lui stesso nel 2012 (il “lodo Patuelli”) di alternare alla guida esponenti delle grandi e piccole banche. Avrebbe dovuto lasciare a fine anno, invece resterà fino al 2022 grazie alle modifiche allo Statuto decise nei giorni scorsi. Un grande classico in casa Abi. Il numero uno di Palazzo Altieri aveva già fatto il terzo grazie a un’altra modifica. Adesso si torna alle regole precedenti al regno di Giuseppe Mussari, l’ex padre padrone di Mps eletto alla guida dell’Abi nel 2010 per acclamazione e confermato nel luglio 2012 nonostante lo scandalo Anonveneta. Anche allora fu modificato lo statuto per lasciare alla guida dell’Abi un banchiere disoccupato. Patuelli, suo avversario, divenne vicepresidente vicario.

QUANDO nel gennaio 2013 Mussari viene travolto dall’inchiesta, ne prende il posto, grazie al lodo da lui inventato, e sempre “per acclamazione”. “Crediamo e operiamo per banche indipendenti, distanti e distinte dalla politica e da ogni interferenza”, esordì il giorno dell’elezione. E chi meglio di un politico poteva dirlo? Nel secolo scorso, Patuelli, classe 1951, avvocato e imprenditore agricolo, fu enfant prodige del Pli: già negli anni 70 guidava la Gioventù liberale e nel 1983, a soli 32 anni, approdò a Montecitorio. Viene rieletto nel 1992, quando diventa pure sottosegretario alla

Difesa del governo Ciampi. Un anno prima era diventato vicesegretario vicario dell’ultimo leader, Renato Altissimo, poco dopo condannato per la maxi-tangente Enimont.

Pautelli s’era già fatto banchiere nel 1991, agli albori della lottizzazione del credito avviata con la nascita delle fondazioni bancarie. Diventa vicepresidente della Cassa di risparmio di Ravenna, nel 1995 sale alla presidenza, carica che ricopre da 24 anni per cui prende uno stipendio di 170 mila euro, che si somma al vitalizio parlamentare. Siede in una decina di società, tra cui diverse controllate della banca. Negli anni è stato in una ventina di cda. Oggi rivendica di non avere legami con la politica, né sponsor a cui render conto: s’è dimenticato la tessera del Pli e la Prima Repubblica in cui la Dc deteneva il potere politico e lasciava a laici e massoni un po’ di spazio nel mondo della finanza (pubblica).

Difficile trovare un banchiere che parli male di Patuelli, stimato pure dai sindacati. La sua forza è l’assenza di alternative. È considerato il meno peggio del mondo bancario di provincia, il più danneggiato dai nuovi criteri sul patrimonio (a partire da Basilea 2) e dall’ipertrofia normativa dell’Unione bancaria europea contro cui la lobby del credito capitanata da Patuelli ha combattuto, con pochi successi.

Oggi Patuelli denuncia i pericoli del bail in, la normativa Ue che impone di far pagare la crisi ad azionisti, obbligazionisti e correntisti più ricchi. Ma quando fu recepita nel 2015 spiegò che sarebbe stata “l’eccezione estrema, non la regola”. Indimenticabile il depliant a fumetti distribuito dall’Abi nelle filiali per rassicurare i risparmiatori (“Tu e il tuo bail in”). La vicenda di Etruria&C. ha mostrato l’errore di valutazione. Oggi Patuelli sostiene che il bail in vìola la tutela del risparmio sancita dalla Costituzione (art. 41). Mai una parola, però, sull’altrettanto grave violazione compiuta dalle banche piazzando miliardi di obbligazioni subordinate alle famiglie (anche CariRavenna lo fece per oltre 150 milioni).

Patuelli è il simbolo di questa contraddizione. Ripete sempre che il “debito pubblico è la palla al piede del Paese”, però difende “il contributo per stabilizzare la Repubblica” che danno le banche acquistando i Btp. E infatti la sua Cassa di Ravenna ne ha in pancia per 1,6 miliardi su un patrimonio netto di 450 milioni, quattro volte il rapporto di Intesa o Unicredit.

Ha predicato per anni che la crisi bancaria fosse finita, mentre vari istituti di credito saltavano. Si è scagliato contro la stretta della Bce sui crediti deteriorati per poi festeggiare ogni volta i risultati delle banche nello smaltimento delle sofferenze, ignorando gli effetti sui debitori. Quando nell’estate 2017 lo Stato ha salvato Mps, per mesi ha chiesto di pubblicare la lista dei grandi debitori degli istituti salvati. La filastrocca che avrebbero ingannato gli ingenui banchieri facendosi prestare denaro commettendo mendacio bancario si è poi scontrata col fatto che nessun banchiere aveva mai presentato denuncia.

Il risultato migliore lo ha raggiunto nella battaglia contro le nuove norme sui requisiti di onorabilità dei banchieri, a suo dire troppo severe. La direttiva Ue che le prevede risale al 2013, ma da sei anni il ministero dell’Economia si scorda di emanare le disposizioni che decimerebbero i consigli di amministrazione.

di CARLO DI FOGGIA da Il Fatto Quotidiano