In viaggio con “Medea” nelle tragedie di oggi

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Gli slip se ne vanno, uno dietro l’altro. A fiorellini, tigrati, leopardati. La nostra compagna di viaggio, entrata sul pulmino per ultima, se li toglie uno ad uno, disinvolta. Indossa delle calze a rete e culotte nere, un dolcevita attillato che evidenza i seni. Si alza, appoggia la mano sulla maniglia in alto e ancheggia sexy. Così scopriamo la sua professione, sulle note di “Chandelier” di Sia: «I’m gonna swing from the chandelier, from the chandelier. I’m gonna live like tomorrow doesn’t exist (Ondeggerò dal lampadario, dal lampadario. Vivrò come se il domani non esistesse)». Mai musica e testo sono così azzeccati.  Entriamo nel vivo di questa Medea dei giorni nostri in una specie di carro merci, con le cinture allacciate sul petto come in giostra. Anche se qui sembra tutto vero.

“Medea per strada” (nel cartellone dei classici dell’Olimpico, ultime repliche questo fine settimana alle 18 e alle 21) è una produzione intelligente; prima di uno spettacolo è un’esperienza d’incontro. È la dimostrazione della forza e dell’attualità dei grandi classici greci. Con la strepitosa interpretazione di Elena Cotugno (nella foto, Teatro dei Borgia, regia di Gianpiero Borgia), chi è tra i sette fortunati ad entrare nel pulmino, diventa per un’ora e un quarto protagonista della “tragedia dello straniero” con la forza del mito di Euripide.

Medea è una simpaticissima prostituta logorroica rumena che racconta la sua vita, l’infanzia, il difficile rapporto con il padre «pazzo», fino all’arrivo in Italia, in Puglia, con l’uomo che ama che, oltre a fare gli affari suoi, la fa lavorare anche con due creature nella pancia «tanto il mondo è pieno di pervertiti, è proprio vero, sapete, è proprio vero» dice. Medea è una sconosciuta, eppure familiare. «Conto sempre tutto – spiega – per non impazzire». «E poi faccio tutto io, faccio tutto». È una delle tante donne – rumene, bulgare, nigeriane, brasiliane e qualche italiana – che occupano ogni sera le strade della nostra città e della nostra provincia. E sono quelle che percorriamo: viale Verona, San Lazzaro, Tavernelle, Altavilla. Donne schiave di qualcuno, ricattate, con debiti da saldare. Ingannate, deportate, violentate, picchiate, sfruttate.

Chi scrive ha interagito con lei, le ha chiesto come, dove, quando, le ha sfiorato il polpaccio e il piede più volte con le frenate del pulmino. «Io faccio tutto – dice ancora -, mostrando un quadernetto con gli schizzi dei volti dei suoi due figli».
Elena Cotugno, 35 anni, è credibile: dall’accento straniero, alla spontaneità e verità del personaggio. Non ci sono compiacimenti, né auto-commiserazioni. Racconta con pacata rassegnazione e rabbia contenuta. È una maschera studiata nei minimi particolari grazie ad un lungo e intenso percorso di approfondimento e mesi di volontariato sul campo che l’attrice pugliese tuttora prosegue a fianco di assistenti sociali e associazioni che si occupano del supporto in strada nel tentativo di recupero di queste donne. «Mi sono innamorata delle prostitute – scrive nel suo diario “di bordo” – non potrei mai abbandonarle». «Ogni luogo che visitiamo è un boccone amaro da digerire – scrive ancora l’attrice -. Vedere come le organizzazioni criminali siano ramificate nelle strade italiane spaventa perché ci si rende conto dell’immensità di questo mare». Dal telefonino di Medea ascoltiamo l’inno rumeno che suo padre le faceva sentire ogni sera, ma anche le hit dance internazionali che ha imparato nel nostro Paese. A Vicenza è arrivata da pochi giorni, dopo aver scoperto che il suo grande amore, l’uomo dai capelli rossi, ereditati dai due figli, la tradisce con un’altra donna, proprietaria di un negozio. Medea, sconvolta, la va a trovare con i suoi gemelli, estrae dalla tasca un coltello e li sgozza tutti: uno, due e tre.

Ora apre il borsone, copre le calze nere con dei pantaloni cargo, scarpe da ginnastica al posto degli zatteroni. Con le salviettine si strucca, batte il vetro del pulmino. Vuole scendere, urla che deve scendere. Quasi si lancia dal mezzo. La risposta violenta, cieca e distruttiva di chi non ha più una vita da vivere. Ha davvero fatto tutto. Peccato non poterla applaudire e abbracciare.