Indi Gregory e il dilemma della Tebe arcaica

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Indi Gragory (foto da Il Fatto Quotidiano)
Indi Gragory (foto da Il Fatto Quotidiano)

Indi Gregory ha appena otto mesi, inglese di nascita ma anche “fatta” cittadina italiana da quattro giorni per provare ad essere ricoverata al Bambin Gesù di Roma invece di essere “estubata”, e presenta una forma encefalomiopatica della sindrome da deplezione del Dna mitocondriale (MDS), una malattia incurabile scoperta per la prima volta, ironia della sorte, proprio in un’università italiana nell’ormai lontano 2013, quando i ricercatori dell’ateneo barese di concerto con un’ equipe israelo-palestinese hanno pubblicato i risultati a cui erano pervenuti nel Journal of Medical Genetics.

Questo gruppo di lavoro internazionale non poteva immaginare come la loro scoperta apparentemente marginale, perché relegata all’etichetta europea di malattia rara, ossia riscontrabile al massimo in 5 individui su 10.000, sarebbe stata al centro di un dramma umano del ventunesimo secolo tra legge scritta e valori morali tanto cruda e sconvolgente da ricalcare la collisione antigonea tra nomos (legge) e physis (natura), per rispolverare un antenato eminente.

Eppure, nonostante un volo apparentemente pindarico verso il mondo dell’antica Grecia, la realtà dipinta da Sofocle non è mai stata tanto tangibile come in questi giorni. Un coppia di genitori devastati che temono il suono del martelletto del giudice, la vita della piccola Indi in balia di una decisione giudiziaria e un diritto positivo lontano anni luce dalla realtà di cui dovrebbe essere codifica normativa.

Per il diritto civile italiano la vitalità, ossia l’idoneità fisica alla vita, che Indy non ha, non è presupposto necessario per l’acquisizione di capacità giuridica da parte del soggetto appena nato. In altre parole in Italia, nell’esatto momento in cui il corpo del neonato si stacca da quello della madre, già allora acquista, solo in forza di questo distacco e a prescindere dalla sua vitalità, la capacità di essere titolare di diritti della personalità, e matura pienamente quello, imprescindibile, alla vita.

D’altra parte, anche in questo caso per aderire maggiormente alla causa di Indi Gregory, per sviluppare un senso critico, per porsi delle domande che, si spera, producano una spinta riformativa nei confronti di simili paradossi legislativi, è necessario chiedersi le ragioni che fanno da fondamenta alla scelta dei giudici inglesi.

Queste, con un atto di semplificazione che non vuole essere additato come banale, sono riconducibili allo spinoso tema dei limiti – di ragionevolezza, di efficacia clinica, di senso – della medicina da cui è  governata la realtà della pratica clinica. Di più, anche il rapporto tra l’appropriatezza delle cure e la gravosità di quest’ultime sui pazienti interessati viene rivisto nei termini quasi matematici della proporzionalità delle cure.

Insomma nessuno, neanche un familiare, può richiedere un trattamento non considerato proporzionato oppure, qualora un trattamento non proporzionato si rivelasse tale in un percorso di cura, questo andrebbe sospeso. Dal ripudio di un’irragionevole ostinazione non si scappa, neanche nel nostro ordinamento (L. n. 219/2017).

Così il nostro mondo fino a questo punto progredito e costruito su nessi causali perfettamente bilanciati, riprende con il caso di Indi Gregory le somiglianze della Tebe arcaica in preda a un editto crudele ma rispettoso del diritto positivo e una donna dissidente ma fedele ai principi valoriali prodotti dalla sua società (Antigone, nella omonima tragedia di Sofocle, decide di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice, pur contro la volontà del nuovo re di Tebe, Creonte, che l’ha vietata con un decreto).

Più di 2000 anni dopo, la vera domanda sembra ancora essere la stessa. Quale parte di noi stessi siamo disposti a rinnegare tra  quella che testimonia il progresso sociale della nostra collettività e quella intrinseca alla società stessa?