
(Articolo su uomini maltrattanti da VicenzaPiù Viva n.303, sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr).
Antonio Romeo è nato a Vicenza e da 15 anni si occupa di violenza di genere in Italia, una questione che lui reputa fondamentale e alla quale ha dedicato la sua vita.
Con VicenzaPiù Viva siamo andati ad intervistare il counselor di cambiamento maschile, già assessore alle pari opportunità del Comune di Montebelluna, nonché co-fondatore e membro dello staff tecnico di “Cambiamento Maschile”, uno dei primi sportelli per uomini violenti attivi in Italia.
Con lui proviamo a capire anche l’altra faccia della violenza di genere: quella degli uomini violenti con le donne.
Antonio, di cosa si occupa precisamente come counselor libero professionista nella relazione d’aiuto?
Io per tanti anni ho fatto altre cose: ho lavorato in azienda, sono stato assessore comunale, ho avuto varie esperienze. Poi, quindici anni fa, ho iniziato a interessarmi del tema della violenza di genere, perché non riuscivo a capire certi meccanismi.
Ero già laureato in scienze politiche, ho fatto un master triennale di counseling e da allora sono counselor. A questa prima esperienza ho poi aggiunto numerosi corsi di perfezionamento a Firenze, presso il CAM, ovvero il primo Centro per uomini autori di violenza (Cuav) in Italia. Ora lavoro come libero professionista, ma prima di mettermi in proprio ho co-fondato e lavorato in un CUAV.
Il counseling è una professione nata negli Stati Uniti negli anni Cinquanta con Carl Rogers, che portò un cambiamento radicale nel modo di intendere l’aiuto psicologico.
Rogers sosteneva che chi chiede aiuto non è “malato”: la maggior parte delle persone vive situazioni difficili, ma non patologiche. Che poi è quello che riscontro anche negli uomini che incontro, che non sono incapaci di intendere e volere: la stragrande maggioranza non ha disturbi tali da impedirgli di cambiare.
Certamente mi sono trovato a seguire anche persone con disturbi bipolari, di personalità o borderline, ma ho riscontrato che le dinamiche che portano alla violenza sono identiche tra tutti gli uomini. Come da tempo sostiene la Società Italiana di Psichiatria, il cosiddetto “raptus di follia” non esiste: la violenza è una scelta e la rabbia è solo la punta dell’iceberg di un modo di relazionarsi ripetuto e sistematico.

E in cosa consiste il lavoro quotidiano che fa con gli uomini autori di violenza?
Il mio lavoro consiste nell’aiutare questi uomini a comprendere le cause del proprio comportamento e ad assumersene la responsabilità.
Nel mio lavoro applico tre principi: ascolto, non giudizio e niente consigli. Un vero counselor non giudica e non dice cosa fare: ascolta.
L’empatia ovviamente non significa giustificare la violenza, ma mettersi accanto alla persona per aiutarla a cambiare. Io non solidarizzo con gli uomini, li aiuto ad aiutarsi a riconoscere la violenza che hanno fatto, a prendersi la totale responsabilità dei loro comportamenti e ad impegnarsi a non farlo più. La violenza non ha nessuna giustificazione, né naturale né sociale né nella provocazione, non è un modo di essere, è un modo di comportarsi, una scelta opposta al rispetto e alla pari dignità che sono dovuti a tutte e a tutti. La violenza è il risultato di fattori molteplici – individuali, relazionali, comunitari e sociali – come spiega anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità secondo il modello ecologico. In generale, sento molte storie sui motivi della violenza, ad esempio quella di un ragazzo che mi disse: “Quando mi sono sposato ho giurato che non avrei mai fatto a mia moglie quello che mio padre faceva a mia madre, e invece l’ho fatto anch’io”. Questo per dire che l’ambiente familiare può essere una causa prossima, ma non è mai la prima principale, come non lo sono l’abuso di alcol o sostanze. Certo, possono esacerbare situazioni di violenza ma non sono la loro causa primaria, che invece va ritrovata
nella cultura maschilista con cui tutti noi cresciamo.
Qualcuno non lo vuole più chiamare patriarcato, io lo chiamo bagaglio maschilista ma la sostanza è la stessa. Questo è evidente soprattutto quando incontro gli uomini in gruppo: cambiano i nomi, le professioni, gli indirizzi, l’educazione, la cultura ma in sostanza non cambia nulla, perchè dicono, pensano, provano e fanno tutti le stesse cose. E lo dico avendo seguito tipologie di uomini più disparate, medici, psicologi, professori, commercialisti, ingegneri, manager, atleti professionisti, cuochi stellati, operai, immigrati…
Occuparsi di violenza è diventato un ideale per lei?
Sì, per me è diventato un impegno civile. Ho quasi 75 anni e dico sempre ai ragazzi delle
scuole: oltre a cercare un lavoro e una famiglia, trovatevi un ideale. Avere un ideale dà senso alla vita. Per me, aiutare anche una sola persona a cambiare, vedere una donna che
dice “è cambiato” o i figli che dicono “abbiamo recuperato nostro padre”, vale più di qualsiasi compenso. Sono convinto che, prima o poi, gli uomini smetteranno di essere violenti. La storia va avanti: il cannibalismo, la schiavitù sono scomparsi; il razzismo, purtroppo, esiste ancora, ma finirà. E finirà anche la violenza di genere.

Vorrei chiederle anche un parere su una forma di violenza di genere più recente:
quella online. Penso ai gruppi Facebook o Telegram che diffondono materiale non consensuale. Le capita di lavorare anche con uomini che agiscono violenza online?
Sì, anche se la maggior parte dei miei casi riguarda la violenza domestica. Ma la radice è la stessa: la cultura maschilista millenaria. Molti uomini non si rendono conto di disprezzare le
donne, ma dentro portano l’idea – antichissima – che la donna sia inferiore. È un retaggio che risale ad Aristotele e che ancora oggi sopravvive.
Quando in rete si condividono immagini intime o si insultano le donne, chi lo fa non percepisce che quella persona ha una dignità. La vede come un oggetto. È la stessa logica di chi un tempo considerava la moglie “di sua proprietà”.
E questa cultura si riflette anche nei casi di stupro di gruppo tra giovani: quando dicono “ci stava”, non comprendono che una persona ubriaca non può dare il consenso, quando dicono “ma ci stavamo solo divertendo”, evidenzia che non hanno il senso di cosa è bene e cosa è male. Queste parole danno il senso del vuoto che c’è in questi ragazzi, che davvero non capiscono la gravità di quello che hanno fatto. È la stessa radice di dominio e disumanizzazione.
Date le sue origini vicentine, le è mai capitato di lavorare anche in questo territorio?
Sì, ho seguito una decina di casi a Vicenza. Ma devo dire che non c’è differenza tra Vicenza, Roma o Palermo: le dinamiche sono le stesse. La violenza domestica è ovunque, e quella psicologica è la più diffusa e la più subdola, forse ancora più crudele di uno schiaffo.
Ad esempio, una donna un giorno mi mostra una bruciatura su un braccio, fattale dal marito con una sigaretta, una violenza che – a detta sua – era niente in confronto alle urla, alle bestemmie, alle volgarità, alle umiliazioni e alle svalutazioni a cui era sottoposta.
A volte, un “sei una pessima madre”, un “sei una pessima moglie” o un “non vali niente” creano un buco nell’anima peggiore di alcune violenze fisiche. Su un caso che ho seguito a Vicenza sto scrivendo un libro, la storia di quest’uomo che ha tentato di uccidere la propria moglie e dopo essere uscito dal carcere è venuto da me a farsi aiutare.
Molti Centri antiviolenza in Veneto sono in allarme per la modifica del principio di esclusività dell’Intesa Stato-Regioni, che vorrebbe tra le altre cose che questo genere di centri si occupasse solo di donne.
Come sappiamo però, molti centri antiviolenza vengono gestiti da cooperative e associazioni che si occupano anche di progetti di integrazione, di tutela dei minori o altri, e rischiano perciò di chiudere.

Lei come la vede su questo tema? In generale cosa ne pensa della mancanza di fondi per questo genere di iniziative?
È una contraddizione enorme. Tutti dicono di voler combattere la violenza sulle donne, ma poi si tagliano i fondi sia ai centri antiviolenza sia ai centri per uomini maltrattanti.
Per quanto riguarda l’intesa Stato-Regioni le cooperative hanno molti ambiti di intervento – donne, anziani, minori, persone fragili e immigrati – e non possono occuparsi solo di un settore. Se le si obbligasse a occuparsi esclusivamente di donne, come dicono alcuni, chiuderebbero. E se chiudono i centri antiviolenza, viene a mancare il primo strumento di protezione per le donne e questo ha conseguenze dirette anche sul nostro lavoro con gli uomini: perché quando una donna non trova un centro di riferimento, aumenta il pericolo per lei.
Molte volte sono proprio le operatrici dei centri antiviolenza che, riconoscendo un rischio reale, riescono a mettere in sicurezza una donna. Se il centro non c’è, dove va?
Solo dai carabinieri. Ma anche lì, purtroppo, a volte resta un residuo di cultura maschilista. Parlo con rispetto, da ex sottufficiale dei carabinieri: oggi la situazione è molto migliorata, ma può capitare ancora che qualcuno dica “lasci stare, è suo marito, torni a casa”. Questo atteggiamento, seppur raro, è ancora un ostacolo. E poi ci sono anche giudici e professionisti che non hanno ancora un’adeguata formazione su questi temi. Per questo è fondamentale che i centri antiviolenza
restino attivi: sono luoghi dove le donne trovano sicurezza, assistenza legale gratuita e
assistenza psicologica gratuita – tutto ciò che serve per uscire dal ciclo della violenza.
Secondo lei sarebbe utile un’integrazione maggiore tra i centri per uomini autori di violenza, i centri antiviolenza e i servizi per i minori che assistono alla violenza in casa?
Mi sembra che spesso ognuno lavori separatamente.
Sarebbe non solo utile, ma indispensabile. Qui a Montebelluna, dove vivo, esiste una
rete che funziona: collaboro con i servizi sociali, i carabinieri, i centri antiviolenza e ci sono tavoli comunali e regionali dove ci confrontiamo.
Non è così ovunque: ci sono ancora centri antiviolenza che non vogliono collaborare con noi, perché mantengono la vecchia idea che l’uomo sia “il nemico”. Ma dove si lavora insieme, i risultati si vedono. Fare rete è essenziale – come in tanti altri ambiti della società – perché la violenza è un problema complesso e va affrontato da più prospettive contemporaneamente.
Lei va spesso anche nelle scuole, che tendenze ha notato tra i giovanissimi grazie a queste sue esperienze?
Penso soprattutto ai casi di relazioni anche tra minorenni in cui certi comportamenti di controllo – come la richiesta di condividere la posizione su WhatsApp o di mostrare con chi stanno – vengono interpretati come segni d’amore o di protezione, quando in realtà sono i primi campanelli d’allarme di un rapporto possessivo.
Negli incontri che tengo da anni nelle scuole superiori noto, purtroppo, quanto certi stereotipi e atteggiamenti maschilisti siano ancora radicati tra i più giovani.
Quando parlo con i ragazzi e le ragazze, mi accorgo che spesso il problema è ancora la minigonna. Faccio sempre lo stesso esempio: chiedo a un ragazzo cosa penserebbe se la sua fidanzata uscisse a cena con un amico di famiglia e lui risponde che non ci sarebbe alcun problema. Ma se aggiungo che quella sera la ragazza indossa una minigonna, all’improvviso scatta il dubbio, la gelosia, la domanda “ma perché si è vestita così?”. È lì che emerge quanto sia ancora diffusa l’idea che il modo in cui una donna si veste o si comporta possa in qualche modo “giustificare” il controllo o la sfiducia da parte del partner. È questa confusione tra amore e controllo, tra gelosia e cura, che preoccupa di più.
Secondo la sua esperienza, qual è il fattore più rilevante della violenza maschile?
La fragilità maschile. Chi fa violenza è una persona fragile, incapace di confrontarsi in modo civile. Lo dico spesso ai ragazzi: un bullo è una persona prepotente, ma anche insicura. Questo è particolarmente evidente nel caso di femminicidi, che accadono spesso quando lei lo lascia. Per lui, un vero uomo, non può accettare che la “sua” donna lo lasci: o mia o di nessuno.
Le donne quando vengono lasciate, pur soffrendo anche loro, dopo un periodo di disperazione, se la mettono via e se ne trovano un altro. Chi è più “forte”: lui o lei?
La cultura maschilista ci ha insegnato che un uomo non deve piangere, non deve avere paura, non deve mostrare emozioni. Ma questo è disumano. Le emozioni le abbiamo tutti. Il problema è che agli uomini non è concesso esprimerle, e allora quando provano rabbia, paura o senso di fallimento, le trasformano in controllo, possesso e gelosia, che sono le spie che dovrebbero mettere in guardia una donna. La cultura maschilista ci ha privato dell’autenticità. Ci ha insegnato che la vulnerabilità è una colpa, ma invece è proprio lì che si trova la possibilità del cambiamento. Solo se un uomo impara a riconoscere e accettare la propria fragilità può smettere di essere violento.
Le interviste con Antonio Romeo e con l’operatrice del Centro Antiviolenza di Vicenza sono state lunghe e dense di contenuti, perché il problema della violenza di genere è molto più complesso delle narrazioni polarizzate che oggi dominano il dibattito pubblico. Da un lato c’è la sacrosanta tutela delle donne, che devono poter uscire dalla violenza e la cui sicurezza deve essere sempre messa al primo posto; dall’altro, il principio cardine del nostro sistema giuridico e sociale – troppo spesso dimenticato – secondo cui chi commette violenza non va abbandonato, ma accompagnato in un percorso di consapevolezza e riabilitazione. E poi ci sono le vittime secondarie: i bambini che assistono a violenza e che portano con sé le ferite di ciò che vedono. In questo modo, il circolo della violenza continua, nonostante l’impegno di tutte le persone che di violenza si occupano. Forse è arrivato il momento di cambiare la domanda di partenza: non più chi agisce o chi subisce la violenza, ma come si può davvero spezzare questo ciclo.
Quali strategie, quali strumenti, quali tutele servono perché la violenza smetta di riprodursi?
E per me la risposta passa anche dall’educazione. È nelle scuole che bisogna intervenire, ripensando i percorsi di educazione affettiva e sessuale, che non possono essere lasciati solo alle famiglie, che non sempre riescono a far fronte da sole alle esigenze richieste su questi temi. Serve una comunità educante, perché – come si dice – “per crescere un bambino serve un villaggio”: un villaggio fatto di famiglie, scuole, istituzioni, Terzo settore, associazioni e cittadini.
Perché non possono essere lasciate sole le donne, i bambini e nemmeno gli uomini, come non possono essere lasciate sole le famiglie. E solo tornando a fare rete, davvero, si può immaginare una società più giusta, più consapevole e meno divisa.
































