Perché insistere sulla vicenda di Julian Assange

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Il giudice capo Emma Arbuthnot e Julian Assange
Il giudice capo Emma Arbuthnot e Julian Assange

Perché insistere sulla vicenda di Julian Assange? Si potrebbe rispondere “perché è giusto”. Perché, anche se non è stato estradato, Assange rimarrà rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh e quindi è necessario insistere perché torni ad essere un uomo libero. È un suo diritto, un nostro diritto.

Perché è necessario, un dovere di ognuno, avere coscienza che, quello che ha subito Julian Assange, è qualcosa che è il risultato di una maniera di ragionare che è diventata abituale e che si può riassumere nell’accettazione del volere imposto da chi si ritiene il potente padrone del mondo.

C’è stata, certo, una sentenza che ha impedito, per il momento, l’estradizione di Assange negli USA dove rischia una pena di 175 anni di carcere. Questa è sicuramente una buona notizia pur essendo una decisione doverosa e normale. Il primo obiettivo era di non permettere agli Stati Uniti di rinchiudere Assange in una delle loro carceri di massima sicurezza e per sempre. Questo obiettivo è stato, per il momento, raggiunto. La sentenza è stata motivata senza scagionare Assange dalle accuse statunitensi ma in maniera sottile prendendo in considerazione le sue condizioni di salute minate da anni di persecuzione che non consentirebbero di garantirgli la sicurezza e, persino, la sopravvivenza. Questa motivazione evidenzia, però, quello che è una specie di atto di accusa, seppur ambiguo, verso un sistema penitenziario, quello statunitense, che consente forme di tortura soprattutto psicologica e di mancanza di sicurezza che non impedirebbero al detenuto di suicidarsi. Si tenga anche presente che la sentenza è stata emessa da una corte di giustizia del Regno Unito, che non è famosa né per tolleranza né per benevolenza.

Ma è tutto il contesto che deve far riflettere. Sono gli articoli dei giornali più diffusi e considerati “autorevoli” che spaventano. Sono le ambiguità che si leggono qua e là. I racconti che trasformano Assange in un hacker (un termine dispregiativo per come viene usato), in un personaggio strano che ha raccolto informazioni riservate e le ha diffuse, una specie di “matto” che è andato contro il sistema statunitense, uno poco simpatico e, in definitiva, un poco di buono che si è sottratto alla “giustizia” per tanti anni. E si insiste sulle sue caratteristiche negative, si evidenziano i suoi capelli bianchi, il suo aspetto, le sue malattie, l’apparenza che è, oramai, la caratteristica principale con la quale si giudica una persona.

Tutte cose ininfluenti di fronte al quesito che ci si dovrebbe porre: le notizie diffuse da Assange sono false o vere? E se sono false, perché non possono essere smentite e si tenta di denigrare la persona? Può anche darsi che Assange sia “poco empatico”, magari arrogante e scostante ma cosa c’entra questo con quello che Julian Assange ha svelato al mondo pubblicando informazioni riservate e, soprattutto, scomode per il potere. Assange ha pubblicato la verità senza “venderla” al miglior offerente, senza ricattare nessuno. La ha semplicemente mostrata a chiunque. Questa trasparenza è il “reato” che ha reso e rende Assange un “pericoloso criminale”, un “terrorista” un sovversivo che ha scoperchiato le bugie dell’impero, svelando le azioni, le manovre per scatenare guerre, le falsità, i massacri, gli atti di terrorismo compiuti dal paese che lo vuole condannare e rinchiudere per il resto dei suoi giorni.

Assange, per il momento, non viene estradato negli Stati Uniti. È giusto ribadire che una prima vittoria è stata raggiunta, ma è altrettanto doveroso affermare che la sua storia non finisce qua.

Se la logica non fosse considerata da troppi un esercizio di stile o un orpello, Julian Assange avrebbe dovuto, subito, essere scarcerato per poter tornare a vivere da uomo libero e, se lo volesse, continuare il lavoro prezioso di mostrare il vero volto di quelle “democrazie” che sbraitano per la libertà di informazione solo quando non va contro i loro oscuri interessi.

Dobbiamo essere coscienti che continuare nella persecuzione di Assange (da parte non solo degli Stati ma anche grazie alla complicità e indifferenza dei governi ad esso alleati con il sostanziale aiuto dell’informazione allineata) non significa colpire una persona più o meno simpatica ma sottomettere la verità e, con essa, la libertà di ognuno di noi alla volontà e agli interessi del potere dei “padroni del mondo”.

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Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.