Processo BPVi: caso Miazzi, un abbandono al buio. Bomba a tempo e baratto impronunciabile?

168
Un momento della manifestazione degli azionisti veneti «sbancati» del 30 giugno 2017 (foto di Marco Milioni)
Un momento della manifestazione degli azionisti veneti «sbancati» del 30 giugno 2017 (foto di Marco Milioni)

Dopo la sortita del giudice del processo BPVi si ha l’impressione che le parti civili non vogliano andare a fondo circa i motivi di una scelta sui cui retroscena si sa ancora poco

Era la fine di giugno quando si seppe dell’abbandono del collegio giudicante del processo BPVi da parte del giudice Lorenzo Miazzi. All’epoca non mancarono le testate che cercarono di leggere una vicenda che suonò quanto meno strana. I dietro le quinte meritano senza dubbio di essere approfonditi perché è anche in quegli interstizi che si celano le chiavi di lettura di una vicenda che prima di essere la storia di un crac finanziario è una vera e propria vicenda di potere. Tuttavia, c’è un altro elemento che sembra sparito dai radar.

Il processo BPVi, almeno stando a quanto è emerso leggendo i giornali, è proseguito regolarmente. Il tribunale di Vicenza ha fatto sapere che l’inghippo Miazzi non precluderà lo svolgimento. La stampa doverosamente ha fatto conoscere ai lettori l’assicurazione giunta da Borgo Berga. Ma quando si parla di diritto processuale penale nessuno può deragliare dal dettato delle norme e della Costituzione. E queste ci dicono una cosa: durante un iter giudiziario, che siano i primi due gradi, ma anche in Cassazione, l’imputato in qualsiasi momento ha diritto di far valere una sua prerogativa. E in qualsiasi momento ha diritto di segnalare una eventuale scorrettezza, fosse anche formale, patita durante un processo.

È bene tenere a mente questo concetto perché nessuno, tranne le difese, può sapere se durante il processo, magari verso la fine o magari in altri gradi di giudizio, le stesse difese decideranno di eccepire questa o quella fattispecie, magari derivante da una o più sbavature di uno stesso processo che, già solo per la sua mole, si preannuncia da subito in salita.

Se la dipartita dal colleggio del dottor Miazzi darà alle difese la possibilità di piazzare nelle fondamenta del procedimento una bomba ad orologeria per fare in modo di disintegrarlo, in maniera del tutto lecita peraltro ove fossero i giudici a stabilirlo secondo legge, questo appartiene al solo foro interno delle stesse difese. A loro e solo a loro spetta il patrocinio dei propri assistiti.

Epperò fatte salve le prerogative degli imputati c’è un’altra stonatura nell’affaire BPVi, l’ennesima, che non è per nulla facile da spiegare. Dopo l’abbandono da parte di Miazzi ancora non si conoscono i motivi precisi in ragione dei quali quest’ultimo abbia deciso di lasciare. O meglio non si conoscono alla virgola le comunicazioni formali giunte a chi di competenza in ragione delle quali il giudice ha pensato di optare per questa scelta alla fine condivisa dal presidente del tribunale Alberto Rizzo. Ma la cosa che desta più stupore è il comportamento delle parte civili, ovvero di quei risparmiatori o ex azionisti che si ritengono danneggiati dal comportamento del vecchio management capitanato dal cavalier Gianni Zonin.

Se l’abbandono di Miazzi ha suscitato dubbi così inquietanti (e i dubbi infatti sono più che legittimi) come mai le stesse parti civili, che hanno diritto a conoscere ogni comunicazione sulla scorta della quale il giudice ha deciso di farsi da parte, non le hanno hanno acquisite mettendo a parte l’opinione pubblica di una «quaestio» tanto «vexata»? Se si mette in correlazione questo aspetto al mutato atteggiamento di Zonin nei confronti dei media, oggi assai più spavaldo, diventa difficile non pensare ad un mutato atteggiamento anche da parte della platea delle vittime.

Di più, se qualche anno fa l‘indignazione dell’opinione pubblica verso l’ex tycoon vinicolo era al massimo, tanto che a Zonin doveva essere vigilato a vista perché si temevano azioni scriteriate nei suoi confronti, oggi il vento pare cambiato. L’indignazione popolare pare rivolta verso la diatriba (sacrosanta) sui rimborsi che la legge ha identificato per una parte «della platea degli sbancati»: e sembra invece meno attenta, forse perché sfiduciata, alla vicenda delle responsabilità penali che da un punto di vista pratico, ma soprattutto etico, valgono infinitamente di più.

Non si può dimenticare infatti che quando in una democrazia, anche sotto il pelo dell’acqua, anche per motivi di opportunità più o meno confessabili, si scardina lo stato di diritto, è la democrazia ad essere colpita nella sua essenza più intima. Il che vale se si vuole dare credito al pensiero per cui quella in cui viviamo, sebbene asfittica, sia una democrazia.

In un Paese come il nostro in cui le trame nel chiuso delle segrete stanze la fanno da padrone da decenni, c’è un dubbio che giorno dopo giorno si sta ingigantendo. Che cosa succederebbe se qualcuno in alto loco decidesse sia giunto il tempo di mettere sul tavolo un baratto impronunciabile?

Una trattativa che potrebbe suonare più o meno così: una parte dei rimborsi o la speranza che questi si realizzino in cambio di un atteggiamento più conciliante, più dettato dalla «realpolitik», da parte di chi ancora, per la sua massa rappresenta una potenziale minaccia contro quel «kombinat» che il collasso della ex popolare se non lo ha causato lo ha quanto meno facilitato.

Fantapolitica o realtà? Solo il tempo potrà dirlo. In termini astratti però, tanto per dirne una, se la commissione straordinaria sui rovesci bancari decidesse di accendere davvero il suo potente faro sul crollo delle ex popolari del centro e del nord Italia sarebbero molti tra palazzi, corridoi e logge a tremare.

Se a questo si aggiunge il silenzio assordante sulla inchiesta per bancarotta che dovrebbe riguardare la ex popolare (un’inchiesta che non si capisce se sia davvero nata), allora si intuisce che la bilancia della giustizia, anche in questo caso di misfatti colossali, si stia trasformando in una sgangherata stadera, in cui il romano è finito dio solo sa dove.