Ritorno a “Per la pace perpetua”: ritroviamo le ragioni della pace dalla Königsberg-Kaliningrad di Kant

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Kant, Per la pace perpetua, Kaliningrad, Putin, credits wikipedia
Kant, Per la pace perpetua, Kaliningrad, Putin, credits wikipedia

Il nuovo centro strategico per la Russia di Putin si chiama Kaliningrad, città fino al 1946 chiamata Königsberg, nucleo originario di quella che un tempo era la Prussia, incubo storico di tutte le studentesse e di tutti gli studenti, costretti a collocarla in un triste balletto di improbabili alleanze di guerra e di pochi trattati di pace. Proprio in questa città bellissima sulla costa del Mar Baltico, all’interno di una exclave russa oggi incastonata tra Polonia e Lituania, nel cuore dell’Unione Europea, diverse fonti confermerebbero la presenza di missili strategici con capacità nucleare.

Già individuata come paradiso fiscale degli oligarchi russi, Königsberg è divenuta celeberrima  per aver ospitato, da sempre e unicamente, la vita e il pensiero del più noto filosofo della modernità, Immanuel Kant. Da Königsberg, infatti, ostinatamente, il padre dell’Illuminismo non si è mai spostato, presidiando simbolicamente da quella città la patria filosofica ideale del libero pensiero e l’utopia del diritto dei popoli ad una vita pacifica.

A Königsberg-Kaliningrad dovremmo, quindi, almeno simbolicamente tornare noi, rivendicandola quale presidio di pace e non terreno di guerra, per di più nucleare, vale a dire definitiva e finale per l’umanità. Da Königsberg-Kaliningrad dovremmo ricominciare a parlare di pace con Kant, anche senza mai averci messo piede, perché non è necessario essere mai stati a Kaliningrad o a Kiev per augurare la pace ai popoli. In fondo, le donne, gli uomini e i bambini di Kiev, di Kaliningrad o di Kobanê hanno le nostre stesse aspirazioni alla felicità e alla libertà e questo lo possiamo sapere, empaticamente, grazie alla nostra esperienza di uomini e donne che ricercano felicità e libertà, non necessariamente in virtù della conoscenza diretta degli abitanti di quelle città.

E con Kant, da Königsberg-Kaliningrad, idealmente, noi vorremmo, dunque, urlare l’urgenza di tornare a narrare cronache, che non siano affatto lapidarie, dei tempi di pace, giacché non abbiamo bisogno di lapidare, così come non abbiamo bisogno di disseminare, ancora una volta, i viali e i sacrari europei di fredde lapidi da visitare solo nelle gite scolastiche.

Nel 1795, quando Kant scriveva Per la pace perpetua, l’Europa aveva già attraversato la Guerra dei Sette anni; l’Inghilterra aveva già perso le colonie oltreoceano con l’indipendenza degli Stati Uniti, eretti su una Costituzione federale; la Francia era costretta ad affrontare in guerra le principali potenze europee, protese ad arginare la Rivoluzione del 1789. L’Europa, dunque, era alle prese con una serie di conflitti durissimi, che avevano messo in discussione la politica dell’equilibrio del Settecento e avrebbero condotto alla Restaurazione – impossibile – con il Congresso di Vienna del 1814-15.

Quasi a volere legittimare il suo intervento, facendolo poggiare non su una vaga filantropia, ma su un diritto irrinunciabile, Immanuel Kant stabiliva alla fine del suo testo un articolo segreto per la pace perpetua in base al quale «Le massime dei filosofi circa le condizioni che rendono possibile la pubblica pace debbono essere prese in considerazione dagli stati armati per la guerra»[1]. Non alle dichiarazioni di alcuni politici, i quali indebitamente si richiamano ai latini per sottolineare che essi solevano dire, inter alias, anche «Si vis pacem, para bellum», come fa Giorgia Meloni, ma alle massime dei filosofi occorre affidarsi, sostiene Kant, per comprendere le ragioni della pace.

Non è un caso, quindi, che già il titolo del testo richiami proprio alle due forme di pace possibili: quella auspicabile come ideale regolativo, ottenuta tramite «il diritto internazionale fondato su un federalismo di Stati liberi»[2], e quella in cui riposano, infine, tutte le ambizioni umane annichilite dai conflitti armati nel «grande cimitero del genere umano»[3].

A partire da questa alternativa, che solo a chi non comprende la naturale asocialità umana da intendere come predisposizione naturale al conflitto può apparir retorica, Kant sosteneva con chiarezza che proprio l’uso dei mezzi che conducono alla guerra deve essere vietato: «Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo scomparire del tutto»[4].

Constatiamo con sconforto che le ragioni della pace sono oggi finite all’interno di un’aporia dettata da una politica dell’equilibrio fondata sulla deterrenza. Mentre la saggezza è impazzita e sembra proiettarci nel secolo passato, noi torniamo ad implorare le ragioni della pace attraverso una immediata sospensione del conflitto e l’imposizione di una necessaria mediazione diplomatica fondata su principi filosofici che, invece, vengono biecamente bistrattati.

Scriveva negli anni ‘90 don Tonino Bello, al quale ci fa piacere ritornare spesso perché siamo convinti che oggi avrebbe parteggiato esclusivamente per la pace: «Avremmo voluto più rispetto per le nostre scelte, tutt’altro che disertorie. E ci rattrista che vengano banalmente letti come fuga il tormento e l’estasi di una speranza che filtra, ormai, sia pur silenziosamente, nelle vene della storia, e che noi ci stiamo sforzando di interpretare con moduli nuovi. La scorrettezza intellettuale, perciò, di chi riconduce questo epocale travaglio dell’umanità a patacche come l’antiamericanismo, è, nell’ipotesi migliore, uno degli indicatori più vistosi della enorme debolezza della nostra cultura rispetto alle inquietudini del nostro tempo»[5].

La bellezza delle parole dei profeti sta nel fatto di essere senza tempo, ma il punto dolente è che i profeti, saggi uomini di spirito o di fede con una visione d’insieme, non vengono mai riconosciuti tra i loro contemporanei e tocca, invece, sempre sciropparsi i politici e i giornalisti pennivendoli di turno.

Di Michele Lucivero e Andrea Petracca.

[1] I. Kant, Per la pace perpetua, RCS Libri, Milano 2010, p. 51.

[2] Ivi, p. 28.

[3] Ivi, p. 21.

[4] Ivi, p. 17.

[5] A. Bello, La teologia degli oppressi, Manni Editore, Lecce 2003, p. 146.


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a cura di Michele Lucivero

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