Rory Gallagher: in ricordo di un grande musicista e una bella persona

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In memoria di Rory Gallagher, grande musicista, persona semplice e gentile che il 2 marzo avrebbe compiuto 72 anni vi proponiamo una nostra personale scelta di suoi brani .

Il 15 giugno 1995, nelle pagine interne de La Repubblica, si poteva leggere un breve trafiletto che riportava la notizia della morte di un chitarrista irlandese:

MORTO IL CHITARRISTA RORY GALLAGHER

LONDRA – Il chitarrista irlandese Rory Gallagher è morto ieri in un ospedale a Londra all’ età di 46 anni per complicazioni polmonari insorte dopo un trapianto di fegato subito martedì. Nato a Cork, Irlanda, nel 1951, Gallagher portò il suo gruppo dei Taste a rivaleggiare alla fine degli anni 60 con i Cream di Eric Clapton; i Taste pubblicarono soltanto due dischi e parteciparono al leggendario festival dell’isola di Wight nel ’70. Dopo i Taste, Gallagher, grande performer dal vivo, intraprese la carriera solista come chitarrista rock-blues con enorme successo in patria e un seguito di cultori in tutto il mondo.

A parte alcune imprecisioni, dovute anche alla non eccessiva notorietà di Rory Gallagher, questa fu, in Italia, una delle rare notizie della sua morte.

William “Rory” Gallagher nacque a Ballyshannon (Donegal – Irlanda) il 2 marzo 1948 e si spense a Londra il 14 giugno 1995. Fu uno dei migliori interpreti e creatori del blues in tutte le sue forme, acustico, elettrico, rock … Nelle sue registrazioni si possono intuire influenze della musica popolare irlandese. Di carattere mite, quando suonava su un palco di fronte a grandi folle (come al festival dell’isola di Wight con i Taste) o in teatri anche piccoli (memorabili i suoi concerti in una Irlanda – Dublino, Cork, Belfast – in pieno conflitto dei quali si ha la testimonianza in un doppio disco “Irish tour ’74” considerato uno dei migliori “live” della storia del rock) si trasformava e riusciva a infondere alla sua musica una forza e un vigore tale da scatenare l’entusiasmo del pubblico.

Gallagher (che scelse di farsi chiamare Rory in quanto, come affermò “non esiste nessun San Rory”) era una persona buona e gentile. Visse con la sua musica e, nonostante non l’avesse mai studiata in maniera scolastica, era un chitarrista con un talento eccezionale. Non fu un virtuoso (come teneva a precisare) ma un bluesman vero che riusciva a far gridare o sussurrare la sua chitarra (famosa era la sua fender stratocaster del 1963 che suonava dall’inizio della carriera e che aveva un aspetto decisamente “vissuto”) e trasmetteva con la sua voce inconfondibile i sentimenti che lui stesso provava e che voleva compartire con chi lo ascoltava. Ed era forza, dolcezza, rabbia, tristezza, tenerezza, desolazione, velocità e lentezza. In una parola “vita”. Per chi lo ascoltava (e lo ascolta ancora) era (ed è) impossibile restare indifferenti.

Rory non era certo un divo o una rockstar. Non lo voleva essere. Forse, per la sua natura riservata e schiva non avrebbe mai potuto esserlo. Non era neppure uno che voleva “fare i soldi”. Per lui la musica era uno stile di vita. Gli importava solo essere su un palco e suonare per gli altri e per se stesso. Era il suo modo di percorrere la vita.

Oggi di lui restano numerose registrazioni e tantissimi video. Ma, oggi come allora, quando era ancora vivo, Rory Gallagher, almeno in Italia, per il ”grande pubblico” è quasi uno sconosciuto. Forse perché non ha mai cercato il successo, forse perché era troppo umile e onesto per vestire i panni del musicista carismatico e irraggiungibile. Era, semplicemente, un grande uomo dentro e fuori dal palco. Si ascoltino le interviste, si guardino i concerti, la passione e l’educazione di questa persona gentile è palese. Si osservi il suo sorriso spesso malinconico ma sempre sincero, da “figlio della classe operaia” che con caparbietà aveva realizzato il suo sogno di diventare musicista. Di essere utile a qualcosa e qualcuno. Rory Gallagher è stato (ed è) uno dei migliori e resterà nella storia del blues e del rock.

Ventiquattro anni fa Rory Gallagher lasciò questo mondo a causa del “troppo alcool” (a questo proposito torna alla mente “Too much alcohol” di J.B. Hutto, uno dei blues che Rory interpretava spesso durante i concerti). Quando lessi quella breve notizia della sua “assenza”, vi assicuro, mi sono sentito più solo. Non ci sarebbero state più nuove canzoni scritte da lui o sue interpretazioni magistrali. Il suo blues, il suo spirito, sarebbe rimasto nelle vecchie registrazioni, nei filmati dei suoi concerti, nel suo volto sorridente, nelle sue camicie a quadri che dimostravano anche plasticamente la sua origine proletaria. E non sarebbe invecchiato nel ricordo di chi, anche senza conoscerlo personalmente, l’aveva riconosciuto come caro amico, di quelli che non ti deludono mai perché sono persone schiette e sincere. Uno che non era mai salito su un piedistallo perché era uno come noi.

Non aveva un’industria dietro le spalle o un’agenzia importante. Non era alla ricerca del guadagno facile o di una fama travolgente e magari effimera. Suo manager era il fratello Donal e questo bastava. Rory era un artista vero, un “artigiano” che rifuggiva lustrini colorati e luci ad effetto. Rory era, riprendendo il titolo di una sua canzone, l’ultimo degli indipendenti. Una rarità nel mondo dello show business.

Rory Gallagher è stato il miglior chitarrista di sempre? Difficile dirlo. Tanti sono stati e sono più famosi di lui. Più conosciuti. Per me è stato immenso, per la musica che ci ha regalato e per il suo essere persona vera.

A Jimi Hendrix, durante un’intervista, fu chiesto: “Come ci si sente ad essere il miglior chitarrista del mondo?”. La risposta fu precisa e sintetica: “E come posso saperlo io? Chiedetelo a Rory Gallagher.” All’epoca Rory era poco più che ventenne. Resterà sempre un giovane al quale “basterebbe solo il sorriso di chi si ama per riscaldare la stanza” (frase liberamente tradotta dalla sua canzone “Just the smile”).

Ricordiamolo così, con quel sorriso spontaneo che hanno le persone sincere.

Ascoltiamo la sua musica, la sua voce, le sue canzoni e come le interpretava. Sempre con estrema onestà.

E ricordiamolo con le parole dell’ultimo verso di una sua canzone del 1971 “For the last time”:

Mi hai abbattuto

per l’ultima volta.

Io sono crollato sul pavimento

ma mi sono alzato al “nove”.

Arrivederci,

non piangere

quando me ne sarò andato.

 

 

 

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Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.