Addio Vicenza, Il Fatto: alzi la mano chi non tifò per il Lanerossi quando nel 1978 sfiorò lo scudetto

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All’età di 115 anni, dopo una vita lunga e ricca di gioie, ci ha lasciati dopo breve agonia il Vicenza, gloriosa squadra di calcio. Ne danno il triste annuncio i figli prediletti Paolo Rossi e Roberto Baggio: e ancora Luis Vinicio, Sergio Campana, Azeglio Vicini, Luca Toni, amici e parenti tutti. Le esequie avranno luogo partendo dallo stadio Romeo Menti in Vicenza. Non fiori, ma opere di bene“. Notizia più brutta non poteva giungere, dal pianeta-pallone, per tutti quelli che hanno amato, amano e sempre ameranno il calcio-poesia degli anni 60 e 70 (che in provincia ha prosperato anche negli anni 80 e 90).

Alle ore 15 di giovedì 18 gennaio, la sezione fallimentare del Tribunale di Vicenza ha pronunciato la sentenza di “fallimento per insolvenza” del Vicenza Calcio, il club che dal 1953 al 1990 si chiamò Lanerossi, portando sul proprio petto la leggendaria “R” stilizzata, dopo essere stato acquistato dall’azienda laniera di Schio che diede vita al primo abbinamento calcio-industria (come Ozo Mantova e Talmone Torino) prima dell’avvento delle sponsorizzazioni, datato 1980.

E anche se sono sempre i migliori quelli che se ne vanno, alzi la mano chi non tifò Lanerossi Vicenza, nel campionato 1977-78 quando la squadra neopromossa in A allenata da Giovan Battista Fabbri – che l’anno prima, in B, aveva trasformato un’aletta senza arte né parte, tal Paolo Rossi, in un formidabile e immancabile centravanti – contese il titolo nientemeno che alla Juventus di Trapattoni, quella di Zoff, Gentile e Cabrini, Benetti, Boninsegna e Bettega e al Torino di Claudio Sala, Zaccarelli, Pulici e Graziani.

Non fosse partito male (3 pareggi e 2 sconfitte nei primi 5 incontri), avrebbe potuto vincere lo scudetto il Lanerossi di Paolo Rossi e Cerilli, Faloppa e Filippi, Carrera e Marangon: che nelle restanti 25 partite fece più punti di tutti vincendo in casa e fuori con la facilità del Napoli di Sarri.

Fu il torneo che portò ai Mondiali d’Argentina Paolo Rossi, capocannoniere con 24 gol, promosso in azzurro da Bearzot e autore di tre gol; il torneo che precedette il mercato delle “buste” con cui Giussy Farina compì la follia di soffiare Pablito a Boniperti offrendo 2 miliardi 612 milioni e spiccioli contro gli 875 milioni della Juve.

Chissà, forse Farina osò l’inosabile perché in fatto di centravanti Vicenza era abituata bene: nel 1966 un certo Luis Vinicio aveva vinto la classifica marcatori con 25 gol (per eguagliarlo, in tornei a 16 squadre, ci sarebbe voluto il Van Basten del 1991-92): e insomma poveri sì, ma belli!

Belli come 20 anni dopo, quando con Guidolin in panchina il Vicenza trionfò prima in Coppa Italia (doppia finale col Napoli) facendo impazzire tutti, l’anno dopo, in Coppa delle Coppe, dove si mangiò il Legia Varsavia, lo Shakhtar Donetsk e il Roda prima di uscire in semifinale col Chelsea di Vialli e Zola (1-0 in casa, 1-3 a Londra).

Era il Vicenza di Zauli e Di Carlo, Otero e Luiso, Ambrosini e Ambrosetti.

La squadra che incantava al Romeo Menti, lo stadio intitolato al grande attaccante nato e cresciuto a Vicenza e divenuto leggenda nel Torino scomparso a Superga. L’ultimo gol del Grande Torino, su rigore, al Benfica, il 3 maggio 1949, l’aveva segnato proprio lui.

di Paolo Ziliani, da Il Fatto Quotidiano