Agorà, la filosofia in piazza: la maturità ai tempi del Coronavirus. L’esame, Foucault e una domanda cruciale: “Cosa vuoi fare da grande?”

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Agorà
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La rubrica Agorà. La filosofia in piazza, inaugurata qualche giorno fa sulle pagine del Quotidiano Web VicenzaPiu.com, nasce, come scritto sin dal titolo dell’articolo di lancio del collega Michele Lucivero, dalla necessità di non rimanere isolati. Un bisogno (un desiderio), quello della condivisione, che sentiamo fortemente proprio nei momenti in cui la parresia – la libertà di dire tutto, con franchezza – ammutolisce, posta di fronte alle ragioni ben più urgenti che uno stato d’emergenza può vantare.

Così, mentre l’incertezza continua ad essere il comune denominatore dei vari scenari politici e sociali che ci si fanno innanzi, tra divieti imposti e poi allentati, ma accompagnati da giustificati appelli a comportamenti individuali responsabili, stiamo recuperando un’impacciata parvenza di normalità nei contatti sociali con l’ansia di poter piombare da un momento all’altro in piena emergenza COVID-19.

La richiesta di tornare alla normalità continua ad emergere da ogni istanza sociale come un bisogno primario. Il mondo della scuola non fa eccezione, anzi, in molti si sono espressi in modo perentorio rispetto all’improrogabilità del rientro a scuola e, nell’attesa divenuta quasi messianica della ripresa delle attività didattiche, una (parziale?) normalità è stata ripristinata con lo svolgimento degli Esami di Stato, conclusisi, invero, senza troppa enfasi.

Esame di maturità in tempi di Covid
Esame di maturità in tempi di Covid

Per ovvie ragioni, sono stati esami atipici, che hanno richiesto come sempre, più di sempre, uno sforzo importante da parte degli Istituti Scolastici e dei circa 500 mila studenti impegnati a completare il loro percorso di studi nonostante le mille difficoltà dovute ad una ripartenza, quella della scuola, complicata, ma attesa da tutti e salutata forse con maggior sollievo proprio dagli addetti ai lavori.

Certo, l’opportunità di svolgere l’esame ai tempi del Coronavirus è stata più volte messa in discussione ed in molti si sono chiesti quale fosse, in definitiva, il senso di proporre un esame mutilato delle prove scritte e della presenza dei membri di commissione esterni alla scuola, quali garanti di maggiore oggettività ed imparzialità dei risultati ottenuti.

Tuttavia, anche nella sperimentalità dell’esame sostenuto, nessuno potrà mettere in discussione la valutazione finale conquistata con i denti da studenti che hanno, ricordiamolo, portato avanti la propria preparazione all’interno di una situazione di endemica incertezza.

Non è inutile osservare come nella nostra società, anche in un momento in cui sembra aumentare la distanza – simbolica e non – tra l’acropoli e l’agorà, l’esame continui ad avere un ruolo quasi fondativo; ce lo ricorda M. Foucault in Sorvegliare e punire quando definisce l’esame «un controllo (…) che permette di qualificare, classificare, punire. Stabilisce sugli individui una visibilità attraverso la quale essi vengono differenziati»[1].

Nel pensiero di Foucault l’esame è minuziosamente ritualizzato perché il suo scopo è quello di qualificare l’individuo, classificarlo… sorvegliarlo.

Il potere, ci spiega il filosofo, dispiega il suo arsenale disciplinare attraverso l’esame. Il sistema educativo è anche questo: una grande forza reazionaria tesa a conservare ciò che la società è già, e non solo fucina della creatività e dell’innovazione che apre allo sviluppo della personalità individuale e collettiva.

Probabilmente, i maturandi che hanno affrontato l’esame di Stato hanno già acquisito – anche solo inconsciamente, se distratti – la consapevolezza che quel rituale ha ancora oggi, e nonostante tutto, un significato importante di documentalità, perché li inscrive nella vita adulta attraverso il riconoscimento di un titolo di studio, di competenze che sono state ratificate e che verranno archiviate, rese per sempre consultabili.

L’esame ha un significato enorme per la nostra società proprio in quanto vorrebbe collegare gli individui, ormai ex-studenti, non più anonimi con i loro freschi diplomi, in modo più saldo alle istituzioni – economiche, sociali e giuridiche.

E, quasi paradossalmente, ciò avviene mentre la scuola li congeda (se vogliamo, anche col cinismo che si addice al disincanto della maturità), mostrando loro la porta d’uscita dal mondo che li ha fatti crescere nel periodo probabilmente più intenso della vita.

Forse, proprio per questo e non a caso, il rituale dell’esame di Stato vuole che, a conclusione del colloquio, al maturando venga posta una domanda cruciale: «L’esame è quasi concluso, ma ci tolga una curiosità: dopo? Cosa farà da grande?».

Una domanda solo apparentemente innocua, pronunciata per sciogliere la tensione degli studenti e che sembra dire a ciascuno di loro, quasi in senso apotropaico: «Adesso hai il diploma, usalo! Esci da qui e cerca di realizzarti!».

Eppure, in un momento come quello attuale, di crisi permanente – sociale, economica, istituzionale, esistenziale – ognuna delle risposte alla domanda «Cosa farai da grande?» finisce col rendere più acuto un malcelato, quanto drammaticamente disorientante, senso di aleatorietà nei confronti del futuro che sembra assottigliare ogni tipo di legame creato: meglio per tutti, allora, completare retoricamente il rituale e concentrarsi sulla gioia del traguardo presente, il diploma conquistato con la vitale, ingenua consapevolezza di avere ancora tutta la vita davanti.

[1] Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 2014, p. 202.


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