Bankitalia, Il Fatto: il regalo annuale alle solite banche azioniste

192

Bilancio 2017 – dividendo da 218 milioni. Prima della rivalutazione delle quote voluta da Letta non si andava oltre i 70. Per gli istituti benefici da 4 miliardi

Anche quest’anno Bankitalia ha deciso di dare ai suoi azionisti, tra cui molte banche (che sono dunque anche vigilate da Palazzo Koch) un generoso dividendo: 218 milioni, su un utile netto di 3,9 miliardi. Allo Stato, che pur non essendo proprietario gode dei profitti della banca centrale, vanno 3,3 miliardi, che diventano 4,9 miliardi considerando anche le imposte versate.


Come ha spiegato ieri nella relazione all’assemblea annuale il governatore Ignazio Visco (il cui compenso resta stabile a 450 mila euro, tetto deciso nel 2014 e più alto dei 240 mila che valgono per la Pubblica amministrazione) si tratta del maggior risultato mai conseguito dall’istituto centrale. Un effetto ottenuto soprattutto grazie all’acquisto massiccio di debito pubblico attraverso il Quantitative easing della Bce (è via Nazionale ad acquistare i titoli) che ha gonfiato il bilancio, triplicato negli ultimi dieci anni.

A gennaio 2014 una riforma voluta dal governo Letta – inserita in un provvedimento che bloccava l’Imu sulla prima casa – ha imposto la rivalutazione delle quote del capitale di Via Nazionale, passato da 156 mila a 7,5 miliardi di euro. La riforma tassava un po’ Bankitalia (garantendo un’entrata immediata allo Stato) e si accompagnava anche a una rivisitazione del meccanismo di calcolo dei dividendi. Secondo diversi osservatori si trattava di un enorme favore alle banche azioniste titolari delle quote e bisognose di risorse per puntellare i bilanci dopo la lunga recessione. “Nessun regalo”, tuonò Visco.

E invece lo era. Prima del 2014 le banche ricevevano da Palazzo Koch dividendi tra i 50 e i 70 milioni l’anno, dopo la rivalutazione delle quote hanno incassato 380 milioni nel 2014, 340 nel 2015 e la stessa cifra nel 2016. Anche quest’anno il dividendo era di 340 milioni, ma solo 218 sono stati distribuiti perché ora sopra il 3% del capitale non si ha più diritto al dividendo. La norma era stata inserita nella riforma per far aumentare il numero di azionisti: entro il 2016 le banche socie dovevano cedere le quote superiori al 3%, pena la perdita del diritto di voto e all’utile per la parte eccedente: in questo modo si voleva creare un mercato delle partecipazioni. Effettivamente in tre anni è passato di mano il 30,65 per cento del capitale, ma a oggi Intesa Sanpaolo, Unicredit, Generali e Carige hanno ancora quote in eccesso per un valore nominale di 2,6 miliardi di euro (un tesoretto da liquidare in caso di necessità).

Dal 2014 i primi tre azionisti hanno ceduto il 27% del capitale di Bankitalia con un guadagno che supera i 2 miliardi di euro. Un bel regalo. D’altronde, per dare un’idea, già nel primo bilancio utile di Intesa la rivalutazione era valsa un beneficio patrimoniale di 2,5 miliardi; 1,4 per Unicredit. La prima ha incassato in dividendi 161 milioni nel 2014, 144 milioni nel 2015 e 119 nel 2016, mentre la seconda se l’è cavata con quasi 200 milioni nel triennio. Insomma, per le banche azioniste il beneficio – calcolato in quasi 4 miliardi – è passato, in parte, dal patrimonio al conto economico dopo la cessione delle azioni. Ad aumentare la loro quota sono state soprattutto fondazioni, casse di previdenza e Inps. Oggi la compagine conta 124 soggetti, dei quali 85 arrivati dopo la riforma: 6 assicurazioni, 8 fondi pensione, 9 enti di previdenza, 20 fondazioni e 42 banche.

Al di là del regalo agli istituti di credito, la riforma Letta sembra aver fallito l’obiettivo. A oggi i primi quattro istituti azionisti hanno in mano ancora il 41% del capitale. Col tetto del 3% si assottiglia il beneficio dei dividendi, ma questo rende complesso liberarsi delle azioni. Insomma, il capitale di Bankitalia continua a essere controllato dagli istituti di credito di maggior dimensione. Che poi sono i principali beneficiari della riforma.

di Marco Franchi, da Il Fatto Quotidiano