Bolivia e Sudamerica, come arrampicarsi sui golpe a forza di… Rampini

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Evo Morales e gli Indios della Bolivia
Evo Morales e gli Indios della Bolivia

Si legga cosa scrive Federico Rampini, nel suo articolo “Quel confine incerto tra golpe e insurrezione” (guarda qui), sul colpo di stato contro Evo Morales. Lo si legga attentamente perché è l’esempio plastico di quello che si può ben definire “realismo capitalista”. Nelle frasi di Rampini si nota una certa soddisfazione della “caduta” di Evo Morales che “aveva imboccato una deriva autoritaria” (affermazione che, però, non viene spiegata ma resta uno slogan che serve solo a giustificare l’accaduto).

Rampini afferma anche che la “dimissione” di Morales è una “buona notizia per il popolo boliviano” senza specificare a quale parte del popolo si riferisca. Perché, anche se gli organi di informazione nostrani e occidentali non lo dicono, in Bolivia il popolo indigeno sta scendendo in piazza a difesa dell’ordine costituzionale rappresentato da Evo Morales, il presidente eletto, il loro presidente. Forse Rampini si riferisce a quella parte di popolo che sbandiera la bibbia, che fa il saluto romano, che ha scatenato la violenza contro il legittimo governo boliviano e che, grazie alla polizia e all’esercito (inerti durante le proteste contro Morales e, oggi, molto attivi contro gli indios di El Alto e non solo) e ai finanziamenti/ordini del loro “padrone statunitense, hanno preso il potere.

Rampini, poi, ci dice che Morales stava facendo un golpe strisciante (senza prove e senza alcuna logica, visto che alle elezioni ha comunque ottenuto il 47,07% dei voti espressi, ben di più di qualsiasi altro candidato e che, dei famigerati brogli sbandierati dai vari “oppositori”, non c’è né prova né traccia) e che, in definitiva è stato un bene “cacciarlo”. Nell’articolo di Rampini, poi, traspare quasi il rammarico che Morales sia ancora vivo (cos’altro può significare la frase “Morales se n’è andato incolume in Messico, non è finito davanti al plotone di esecuzione”?). Ma non è tutto perché il Rampini giustifica, anzi è proprio a favore, della brutale repressione che la polizia cilena (che lui dichiara “agli ordini di un legittimo governo civile”) ha scatenato contro le manifestazioni antigovernative. Repressione che significa oltre 20 morti, centinaia di feriti, migliaia di arresti, stupri e torture contro i manifestanti.

Una violenza che ricorda i tempi di Pinochet e che si sta scatenando adesso (e non prima, quando Morales era presidente) in Bolivia contro i sostenitori del legittimo governo abbattuto da un “golpe”. Magari mascherato da qualcosa d’altro, o definito in maniera “dolce” come insurrezione pacifica e popolare, ma inequivocabilmente un colpo di stato preceduto da violenze, incendi, minacce, sequestri di persona e intimidazioni messe in atto da quella opposizione a Morales che non ha nulla di democratico e molto di razzismo fascista.

Si sappia che gli indios boliviani, in questi giorni, sono scesi in lotta contro il colpo di stato fascista e razzista che ha costretto Evo Morales all’esilio. Lo hanno fatto mettendo in gioco la loro vita. Bisogna ricordare sempre che in Bolivia era in atto una vera Rivoluzione. Sì, quella di Morales è proprio una Rivoluzione perché, con la conquista dei diritti per un popolo sottomesso e umiliato da secoli, si stava trasformando radicalmente uno stato di cose che sembrava immutabile. Il colpo di stato non è stato fatto contro Evo Morales perché “dittatore” o “autoritario” ma contro il popolo indio. L’odio e il disprezzo contro i contadini, i minatori, i cocaleros che, grazie alle politiche socialiste di Evo Morales, avevano “osato” essere uguali ai ricchi e ai “bianchi” si è scatenato in Bolivia, con la solita violenza dei fascisti e dei razzisti.

In questi giorni mi sono trovato a canticchiare una canzone peruviana molto in voga negli anni ’70 del secolo scorso. La canzone si intitola “Cholo soy y no me compadezcas” (sono “cholo” e non compatirmi). Il termine “cholo” è usato per definire l’appartenente alla popolazione povera, magari non è un indio puro ma nemmeno un meticcio. Più indio che meticcio fa parte del “popolino”. Questa canzone (di Luis Abanto Morales che rielaborò il testo di una poesia dell’argentino Boris Elkin) ebbe un enorme successo in Perù e in tutta l’America Latina. Il testo, pur con le sue “sdolcinature”, è un esempio di quell’orgoglio nazionale che travalica la “nazione” intesa come un territorio circondato da confini ma cresce e diventa quella “nazione” costituita dai diseredati, dagli emarginati, dai poveri dell’area andina e di tutto il Sud Ameroca; da quelle persone, cioè, che sono costrette a subire ogni sopruso e la discriminazione della civiltà dei ricchi per poter sopravvivere in un’esistenza distante mille miglia dalla loro tradizione. Un popolo spogliato di tutto, della ricchezza della terra, della sua cultura, della libertà.

La canzone parla di tristezza. Di quella condizione disumana di sfruttamento, di oppressione, di rapina della dignità che viene imposta al “cholo” dai padroni ricchi e bianchi.

Indicativo è il recitativo che descrive il trattamento riservato al “cholo”:

“Allora cosa vuoi …

cosa vuoi che faccia …

che sia allegro

come nei giorni di festa

mentre i miei fratelli

piegano le spalle

per quei quattro centesimi

che il padrone dà loro?

Vuoi che rida

mentre i miei fratelli

sono diventati bestie da soma

e portano ricchezze

che altri accumulano?

Vuoi che il riso

mi gonfi il viso

quando i miei fratelli

vivono nelle montagne

come talpe che

scavano e scavano

mentre quelli che non lavorano

si arricchiscono?

Vuoi che mi rallegri

mentre le mie sorelle

vanno nelle case dei ricchi

e sono trattate come schiave?”

Un trattamento molto diffuso che, la politica di Evo Morales, stava distruggendo. Ed è proprio per ripristinare la condizione di “sub-umani” alla quale gli indios erano ridotti che in Bolivia l’oligarchia fascista e razzista, con il determinante aiuto dell’impero statunitense, ha scatenato il colpo di stato.

Con il suo articolo Federico Rampini si è dichiarato per quello che in effetti è o vuole essere: un lacchè (qualcosa, cioè, di molto più meschino che l’essere “servo”) dei ricchi vassalli dell’impero globale.

A Rampini e ai vari personaggi intellettuali o meno che giudicano sempre le cose del mondo con il metro dei conquistatori e degli imperialisti credendo di avere la verità in tasca per il solo fatto di appartiene alla “parte trionfante del mondo”, a chi si schiera sempre e comunque dalla parte del più forte, è giusto ricordare le parole di Tupac Katari, rivoluzionario aymara boliviano che visse nella seconda metà del diciottesimo, lottò contro l’invasore spagnolo e fu ucciso per squartamento. La stessa sorte che toccò all’altro grande rivoluzionario peruviano Tupac Amaru II.

Sono parole di speranza irriducibile che lo stesso Evo Morales, partendo per l’esilio messicano, ha rivolto al suo popolo della Bolivia: “Tornerò e saremo milioni!”

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Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.