Chomsky e la morte della verità: l’esperimento della rana bollita

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Rana bollita, credits maestr'ale
Rana bollita, credits maestr'ale

Noam Chomsky e la morte della verità: l’esperimento della rana bollita per comprendere l’oggi tra fiducia e speranza nella verità.

Noam Chomsky
Noam Chomsky

«Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. […] Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. […] Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita»[1].

Così il filosofo e linguista anarchico Noam Chomsky descrive il “principio della rana bollita”, partendo da un esperimento realmente compiuto sulle rane. Nella sua analisi del potere Chomsky utilizza la metafora della rana bollita per descrivere l’accettazione passiva degli oppressi di un sistema ingiusto e degli abusi degli oppressori perché abituati al contesto e alla logica della sopraffazione. Siamo condannati allora, ancora una volta, a essere definitivamente vittime dell’autorità o c’è una speranza di liberazione? In tempi come quelli contemporanei, su cosa basare il desiderio di saltare via dalla morte e dalla distruzione? Quale fondamento nella nostra coscienza per la liberazione, se la nostra stessa coscienza è creata e alienata dall’autorità?

Secondo alcuni siamo nel mondo dove la verità è morta, dove la decostruzione, lo scetticismo, il relativismo e il dubbio radicale hanno cancellato ogni speranza in ogni direzione. Secondo quest’interpretazione è il nichilismo che porta all’accettazione della violenza sistematica e del terrore razionale. La soluzione che questa prospettiva offre è quindi la ripresa di un principio fondamentale, una base etica e conoscitiva per la speranza in una società dell’avvenire che porti alla liberazione umana e alla redenzione universale. È la verità che ci salva dalla lenta morte della rana bollita.

«Il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie. Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. È lui la misura del vero umanesimo»[2].

Queste parole di Joseph Ratzinger riassumono questa prospettiva che si traduce anche in un appello politico contro la “degenerazione moderna” anche in campo sociale ed economico, oltre che filosofico. Il fondamento di questa visione conservatrice è però la degenerazione dei valori morali, prodromo alla morte di ogni verità e vera causa dei mali della modernità.

Questa visione del mondo si basa sulla morale e sulla presunta bellezza ideale dei valori etici, fondamento trascendente non solo per la religione, ma per tutto ciò che è umano. Già nell’antichità lo storico Erodoto aveva espresso i suoi dubbi sulla trascendenza della morale e della verità. Il suo scopo infatti non era solo quello di raccontare le guerre persiane, ma quello di compiere una vera e propria autopsia di due culture e società violentemente contrapposte.

Nel raccontare le sue storie spesso emergono alcune riflessioni di carattere etico e sociologico: «durante il suo regno, Dario convocò i Greci presenti al suo seguito e chiese loro in cambio di quali ricchezze avrebbero accettato di mangiare i padri morti: i Greci risposero che non l’avrebbero fatto a nessun prezzo. Dario quindi, convocati gli Indiani chiamati Callati – quelli che mangiano i genitori –, alla presenza dei Greci che comprendevano quanto veniva detto attraverso un interprete, chiese loro in cambio di quali ricchezze avrebbero accettato di bruciare con il fuoco i padri morti. I Callati, gridando forte, esortarono Dario a non pronunciare parole empie. Le usanze sono fatte così: e mi sembra che Pindaro fosse nel giusto quando diceva che “l’usanza” è “regina del mondo”»[3].

L’abitudine è il motivo per il quale crediamo che la nostra impostazione etica sia ideale e trascendente. L’etica stessa emerge però come prodotto naturale, sociale e umano. «Dove voi vedete cose ideali, io vedo cose umane, ahi troppo umane!»[4], scrisse Nietzsche, riferendosi al suo proposito di indagare l’origine della morale, negando la superiorità di ogni valore e verità, che non sono altro se non una nostra costruzione.

È l’uomo che crea l’etica e sono i condizionamenti sociali, culturali, naturali e psicologici che creano l’uomo, anche l’uomo come puro pensiero della filosofia classica. Persino la nostra memoria è fortemente condizionata e, come i nostri pensieri e azioni, può essere manipolata dall’autorità.

Non possiamo quindi più appellarci a rigide verità definitive, è morta la morale come principio oggettivo del mondo, come base per la liberazione umana. È morta la verità come fondamento della conoscenza, distrutta dalla scoperta terrificante che sono le strutture a creare l’uomo e che è la natura e la società che generano le nostre più profonde verità che riteniamo base per la credenza nel trascendente. È morto anche l’io, in quanto ci siamo resi conto della nostra estrema limitatezza e della nostra essenza sociale. Intrappolati nelle strutture della società, della natura, della mente o del linguaggio, anche «se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo»[5].

Sono quindi i dogmi, anche morali, che hanno generato la nostra attitudine all’obbedienza verso la sacra autorità, rappresentante della sacra verità, ma è tempo di liberarci. Riusciremo quindi a decostruire le nostre verità, a ripartire dalla rivolta per costruire un mondo basato sul relativo? Oppure siamo condannati a ripiombare nel baratro terrificante e paralizzante della certezza dogmatica, o alla sterile accettazione del potere dissolvente dell’autorità? È tempo del fertile dubbio continuo, è tempo della rivolta per costruire una società veramente umana o è tempo del ritorno a dogmi definitivi?

[1] N. Chomsky, Media e potere, Bepress, Lecce 2014, pag. 75

[2] https://www.vatican.va/gpII/documents/homily-pro-eligendo-pontifice_20050418_it.html

[3] Erodoto di Alicarnasso, Storie, III, 38, 3-4

[4] F. Nietzsche, Ecce homo, Adelphi, Milano 1991, pag. 62

[5] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967, pag. 292