Nasce la Commissione Dubbio e Precauzione. “Filosofia in Agorà”: le opinioni sui filosofi e il valore della doxa

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Commissione Dubbio e Precauzione
Commissione Dubbio e Precauzione

Esprimere pubblicamente un’opinione sulla bontà o meno delle politiche intraprese dai governi per far fronte ai nuovi scenari pandemici dinnanzi alla quarta ondata, iniziative che vanno dall’italianissimo Super Green pass, passando per il piano B inglese, fino ad arrivare alla decisione danese di chiudere le scuole, non è una colpa, neanche quando chi la esprime lo fa con la qualifica di filosofo.

Del resto, che le opinioni non siano necessariamente da assimilare alla chiacchiera (cfr. Heidegger), ma siano spesso determinanti nel promuovere movimenti o semplici gruppi di pressione, risulta evidente da sempre e ce ne accorgiamo anche oggi, constatando, ad esempio, la recente formazione della Commissione DuPre, Dubbio e Precauzione, che annovera otto filosofi, otto scienziati e sei giuristi, tra i quali spiccano i nomi del giornalista e massmediologo  Carlo Freccero, dei filosofi Massimo Cacciari e Giorgio Agamben – quest’ultimo tra l’altro già più volte ascoltato al Senato – e dell’ordinario di diritto civile Ugo Mattei.

Sostenere, poi, che le idee di coloro che restano, tuttavia, tra i maggiori pensatori contemporanei siano solo farneticazioni – che non potranno mai avere la cogenza argomentativa della razionalità schierata con la Scienza – o, peggio, elucubrazioni di una filosofia che ha tradito il suo primigenio anelito alla Verità, non aiuta la comprensione del complesso periodo che stiamo attraversando.

Non c’è dubbio che, sin dal mondo antico, la voce dei filosofi, la voce che insinua il dubbio e invita ad un pensiero critico, sia stata dalla politica ricercata, punita, temuta, sopportata o supportata, ma, comunque, sempre ritenuta degna della massima attenzione, anche per poterla alla fine denigrare o censurare. Del resto, anche oggi, quando volgiamo lo sguardo al passato, ci serviamo dei concetti e delle interpretazioni filosofiche – anticipatrici dei cambiamenti e illuminanti nello stabilire nessi tra fatti e idee – per chiarire complessi periodi storici o, ancora, utilizziamo teorie politiche elaborate dai filosofi della modernità per gettare luce sulla struttura dei nostri sistemi di governo. Questo avviene in ogni contesto culturale, con buona pace di chi pensa che in fondo si tratti solo di opinioni.

Se è vero che nell’esercizio del dubbio filosofico si manifesta quell’impulso alla ricerca della verità essenziale al filosofare, evidente in modo drammatico proprio attraverso il dialogo, lo scambio di opinioni con interlocutori in carne ed ossa, accade più spesso però che, constatata l’impossibilità di giungere ad una oggettiva verità, questo tipo di ricerca filosofica finisca per accontentarsi dell’omologhia, dell’accordo, cioè, intorno a posizioni o definizioni provvisorie che, pur rimanendo ad un livello differente rispetto all’episteme, affermano, comunque, una rappresentazione della conoscenza, provvisoria ma condivisa, la doxa.

Il valore dell’opinione che non fugge il confronto pubblico lo ritroviamo chiaramente nell’epitaffio pronunciato da Pericle ad Atene, considerato, a ragione, l’elogio più celebre delle pratiche democratiche: «Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla strada dell’azione politica, ma come indispensabile premessa ad agire saggiamente»[1].

Ecco, proprio intorno alla tenuta delle nostre istituzioni democratiche, messe ripetutamente alla prova da ricorrenti periodi di crisi, la filosofia, con i suoi esponenti, continua a tenere alta la guardia. Lo faceva anche prima della pandemia, quando, per esempio, due noti intellettuali, Luciano Canfora e Gustavo Zagrebelsky, ci avvertivano della maschera democratica che cela l’oligarchia, perché, è vero, viviamo in democrazia e oggi «se l’oligarchia si instaura nei nostri regimi, deve farlo in forme democratiche»[2], ad esempio controllando o indirizzando, oppure minimizzando l’importanza delle opinioni.

Non occorre dilungarsi oltre su questo punto: avere delle opinioni fondate intorno a temi politici, sociali, economici, sanitari, non significa avere un prodotto secondario, accessorio, di seconda mano, rispetto a chi sostiene di possedere la inconcussa Verità. La distinzione platonica tra mondo sensibile e mondo delle Idee in politica non ha alcun senso, perché nell’agone del dibattito politico ci si muove nel campo delle opinioni, e non nell’Iperuranio; sul terreno delle leggi, dei regolamenti, delle abitudini e delle pratiche sociali, che in democrazia proprio dalle discussioni dovrebbero emergere e che, come abbiamo visto fin troppo bene in questo periodo pandemico, non sono immodificabili ed eterne, le opinioni hanno maggior valore se pronunciate da persone influenti, che sanno usare le parole e le argomentazioni e sanno indirizzare il consenso.

Anche decadendo l’anelito metafisico alla verità, sappiamo, quindi, che, attraverso la discussione pubblica tra parlanti che si intendono reciprocamente, è possibile recuperare un’oggettività fondata sull’intersoggettività.

Non è, in poche parole, né la soggettività a tendere verso l’oggettività, né l’oggettività a discendere e investire di sé il puro soggetto; l’acquisizione di conoscenze, credenze, opinioni, segue un’altra strada, quella della relazione tra soggetti che condividono uno spazio esterno, pubblico – il contesto culturale e politico, storico-sociale – interagendo tra loro e determinando con ciò continui assestamenti rispetto alle posizioni assunte, di volta in volta, dagli attori coinvolti.

La necessità dell’intersoggettività, così intesa come confronto tra parlanti e interpreti che si incontrano in un ambiente esterno, è il nodo cruciale su cui si gioca non solo lo sviluppo delle idee, ma l’essenza stessa della conoscenza. Come ricorda Davidson, soggettivo, intersoggettivo e oggettivo si sostengono reciprocamente: come in un tripode se una gamba dovesse cadere, nulla resterebbe più in piedi[3].

Per alcuni queste posizioni parrebbero orientare verso un relativismo spinto, ma, proprio per questo, ne sosteniamo qui l’estrema utilità culturale, per consentirci almeno teoreticamente di uscire da una dimensione solipsistica del sapere, che nuoce alla democrazia, perché rinchiude gli individui, in attesa della Verità rivelata, in una dimensione solitaria e privata, in cui l’unica attività di pensiero soddisfacente risulta essere quella di frustrarne il suo stesso impiego, riducendo a non-senso, o svalutando al rango di chiacchiera, il confronto pubblico intorno ad opinioni che rimangono, comunque, infine, politiche.

[1] Tucidide, La guerra del Peloponneso, Libro II, in S. Veca, Il mosaico della libertà: Perché la democrazia vale, Università Bocconi Editore, Milano 2021, p. 34.

[2] L. Canfora e G. Zagrebelsky, La maschera democratica dell’oligarchia, Laterza, Roma-Bari 2014, p. 7.

[3] Cfr. D. Davidson, Soggettivo, intersoggettivo, oggettivo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003.


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a cura di Michele Lucivero

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